Il Cairo: nuove identità

I parallelismi storici sono tutti sbagliati. L’attuale campagna di sviluppo urbanistico è presentata dai suoi sostenitori come se fosse semplicemente l’ultima tappa dell’espansione nel deserto dopo l’indipendenza. Sia Nasser sia il suo successore Sadat, sostengono gli impresari edili, intrapresero progetti di costruzione legittimati dalla rivoluzione: zone industriali e quartieri operai che consentissero all’ Egitto di espandere il proprio spazio abitabile, trasformando regioni desolate in verdi pascoli per un paese indipendente. Ma questo concetto del pioniere del deserto che avanza eroicamente in una terra vergine si adatta molto poco all’abitante delle città satellite, che si è ritirato in un mondo di “frontiera” fatto di stanze da bagno con pavimento riscaldato disponibili in quattordici configurazioni diverse ed è guidato da speculatori diventati padroni di terreni pubblici per farne un uso chiaramente privato. Gli abitanti considerati abbastanza ricchi da meritare un posto nei comprensori privati del Cairo del futuro hanno comunque, anche se all’interno di parametri dettati dalle società immobiliari, l’opportunità di accedere a una nuova era di protagonismo e creatività, dove i muri materiali e le restrizioni sociali della città vecchia spariscono per consentire la nascita di nuove identità.

A giudicare dall’architettura delle ville in vendita a Uptown e altrove, queste nuove identità sono allo stesso tempo europee, mediterranee e islamiche (anche se quello che viene esibito come influsso musulmano appartiene più al mondo disneyano di Aladdin ricostruito nei parchi a tema occidentali che alle espressioni culturali più austere e autodisciplinate del populismo islamico contemporaneo). Ma resta il fatto che la maggior parte dei venti milioni di residenti del Cairo non arriverà mai a vedere l’interno di queste guarnigioni fortificate del nostro tempo. Oltre ai proprietari, le vedranno solo gli operai che le hanno costruite, i guardiani, le baby-sitter ole collaboratrici domestiche.
È questo abisso tra gli spazi occupati dai ricchi e quelli abitati dai poveri che preoccupa molti studiosi. Che conseguenze potrà avere l’idea delle città satellite? La società egiziana è sempre stata caratterizzata dalla diseguaglianza, ma prima i due estremi si mescolavano insieme nell’anarchico contenitore urbano del Cairo. “Perché un sistema sociale possa godere di buona salute, le diverse classi che lo compongono devono vivere in simbiosi. Ma qui c’è stata una rottura della coesione sociale che è andata di pari passo con i cambiamenti nell’uso della terra determinati dalle città satellite. I nuovi insediamenti stanno aumentando il divario tra ricchi e poveri, e questo rischia di avere effetti molto pericolosi sulla società egiziana”, afferma il professor Ahmed Okasha, psichiatra egiziano ed ex presidente della World psychiatric association.

Al secondo piano di una villa in costruzione in un comprensorio del Nuovo Cairo chiamato La Reve, incontro Mohammed Sayed Mohammed, un operaio che dirige una squadra di sette manovali. Sono tutti suoi parenti e provengono dalla città di Sohag, nel sud dell’Egitto. Gli chiedo cosa sa dei futuri compratori di questa casa. “Noi costruiamo le ville e ce ne andiamo”, spiega Mohammed, che riceve i dollari per metro quadro di costruzione. Questi soldi deve dividerli con i suoi aiutanti. “Non ho idea di chi ci vivrà, probabilmente qualcuno più in alto di me. Quando avrò finito questa villa non credo che potrò rivederla. Per questo chi la compra paga così tanto, per stare lontano dal popolo”. Poi si sciacqua la faccia e invita i suoi cugini che lavorano con lui a fare una pausa. “Le persone che verranno a vivere qui vogliono starsene in pace. Tutti desiderano un pezzetto di mondo tutto per loro”.
Mohammed si sposa tra un mese. Oggi vive qui a La Reve, ma se lui e la moglie dovessero trasferirsi al Cairo, una possibilità concreta considerando le scarse opportunità di lavoro altrove, finiranno in un ashwai’yat, una delle baraccopoli che oggi ospitano il 60 per cento della popolazione cittadina. Se saranno più fortunati andranno in un quartiere del centro abbandonato dai ricchi. In una città da cui gli abitantipiù ricchi, colti e potenti se ne vanno cosa resterà? Okasha disegna un quadro di abbandono politico, dove lo stato è assente perché chi è abbastanza ricco da farsi sentire non spinge più le istituzioni a prendere decisioni nell’interesse della comunità. “Non ci saranno servizi né infrastrutture, solo povertà e sovraffollamento. Mancheranno scuole, ospedali e fognature. In una città simile la frustrazione cresce e provoca seri problemi psichici, il peggiore è il senso di non appartenenza, di indifferenza. Quando ti rendi conto che lo stato non ti dà una casa e non provvede ai bisogni fondamentali, non appartieni più allo stato. Appartieni a chi ti offre queste cose, ed è qui che entrano in gioco i fondamentalisti. Si sta sfaldando anche il minimo senso di attaccamento alla nazione”.

Il boom delle città satellite e la conseguente espansione delle ashwai’yat sono due facce della stessa medaglia: i due spazi non potrebbero essere più diversi, eppure hanno in comune l’assenza del governo centrale, una tendenza all’autogestione e una riformulazione dell’identità sociale. Nelle aree più povere, le vecchie reti di parentela trapiantate dalla campagna lavorano accanto a organizzazioni religiose come i Fratelli musulmani, per aiutare gli abitanti a soddisfare i bisogni della vita quotidiana. Per i ricchi è in vendita un sistema diverso. In molte nuove aree urbane nel deserto ci sono delle forme di democrazia privatizzata: i residenti votano per il controllo e la gestione degli spazi condivisi e dei servizi domestici. In un paese che, dopo avere abbattuto una dittatura trentennale, combatte per una reale democrazia, le ripercussioni politiche della ritirata dell’élite in questi bastioni di libertà limitata potrebbero essere gravi. Il vecchio Cairo - da una parte il centro, dove le proteste per la democrazia sono state regolarmente represse dalla polizia antisommossa, e dall’altra i vicoli degli ashwai’yat, dove negli ultimi anni sono scoppiate violente rivolte contro le forze di sicurezza — è l’arena in cui si giocano oggi le sfide allo status quo politico.
Okasha non ha dubbi sugli effetti psicologici di questa separazione: “Il nostro paese ha bisogno di un cambiamento genera le Un cambiamento impossibile se il 20 per cento dei ricchi non sa cosa prova l’8o per cento del resto della popolazione. L’isolamento porta alla disumanizzazione e rischiamo di diventare individui ottusi, simili ad automi”. Eric Denis, del centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi, esperto di Egitto, è ancora più duro: “Il modello politico della zona residenziale privata punta a costituire delle unità autonome in cui è possibile vivere in una democrazia partecipativa anche se nel paese manca una democrazia sostanziale”.

Città satelliti del Cairo - Prati riservati

Nel maggio del 1997 il presidente Hosni Mubarak inaugurò un campo da golf in diretta sul canale televisivo Channel One, definendolo un polmone verde per il popolo del Cairo. Quasi nessuno degli spettatori ha mai avuto l’occasione di respirare l’aria pulita del campo da golf. I pochi che se lo possono permettere fanno parte di una minoranza benestante trincerata nei discorsi sui pericoli urbani della vecchia capitale in rovina, un gruppo di ricchi e potenti in cerca di verdi pascoli dove rinchiudere i loro vantaggi economici e politici a spese della maggioranza abbandonata a se stessa. “I complessi residenziali autorizzano le élite che ci vivono a continuare la marcia forzata per una liberalizzazione economica che favorisce gli oligopoli e non ridistribuisce la ricchezza. Allo stesso tempo in queste cittadelle le élite proteggono se stesse dagli effetti nocivi e dai rischi di questo processo”, spiega Denis. Ma in definitiva, continua, i muri costruiti dalle città satellite saranno la causa del loro fallimento. Attaccando la coesione sociale in nome del progresso, alla fine i centri residenziali produrranno, inevitabilmente, proprio i pericoli che dovrebbero scongiurare. La nuova sede dell’università americana del Cairo, la migliore istituzione formativa del paese per i fortunati che possono permettersela, si trova nel deserto. Lungo la strada per andarci, uno scavatore solleva il suo braccio meccanico verso il cielo. Siamo a Palm Hills Village, un nuovo quartiere residenziale del Nuovo Cairo che avrà un centro commerciale a tre piani con il tetto scorrevole in vetro. Come Madinaty, Palm Hills Village deve affrontare in tribunale delle dispute sull’acquisizione dei terreni, e la contrattazione delle azioni della società è stata sospesa. Dalla gru, i lunghi fili di acciaio Ezz — prodotti da Ahmed Ezz, ex parlamentare del partito al governo, oggi in prigione — sembrano serpenti dalla pelle argentata che si dibattono al sole, un frammento di una massa di rottami edilizi che si allunga sottilmente nell’etere. Oltre l’università, altri frammenti indistinti sono stati strappati alla realtà e buttati alla rinfusa nella sabbia, lontani l’uno dall’altro: tre strutture concentriche di una chiesa costruita a metà, una fila di lampioni argentati ancora avvolti nell’involucro di plastica, una palma innaturalmente dritta che è in realtà un’antenna per telefoni cellulari. Con i pochi edifici che lo trafiggono, il cielo da queste parti ha sempre una sconcertante epicità. A volte sembra di essere arrivati alla fine del mondo.
Intorno alla gru ci sono operai sui tetti che fumano e ascoltano Umm Kalthoum dalle radioline. Oppure bevono il tè o pregano inginocchiati sui sacchi di cemento. Con un’ideale zoomata in avanti, sembra di essere in un qualunque quartiere del Cairo. Il futuro di questa metropoli, così spesso rappresentata come un luogo statico, un campo di mummie, ora è messo in discussione non solo dai muri, dai cancelli e dai posti di guardia, ma anche da chi cerca di fuggire dai suoi confini.

I ricchi abbandonano il centro, e i suoi edifici cadenti sono comprati per quattro soldi da una società immobiliare che guarda ai prossimi quaranta o cinquant’anni, quando - così spera - la reclusione suburbana delle città satellite passerà di moda e l’establishment egiziano tornerà precipitosamente in centro. “I figli di chi va via di solito ritornano: è un ciclo che si può vedere ovunque, a Istanbul, Londra, New York”, dice El Mikawi. L’idea che ci sia un ritmo naturale nell’espansione urbana del Cairo — un ritmo nel quale le città satellite giocano un ruolo vitale - è condivisa da molti imprenditori edili. Appaltando i suoi spazi urbani a società private che promettono di recintare e selezionare l’accesso a terreni che una volta erano aperti a tutti, lo stato egiziano sta saltando su un carro globale che negli ultimi anni ha preso sempre maggiore slancio. Quella che alcuni studiosi hanno chiamato “l’architettura della paura” è nata negli Stati Uniti e sta rimodellando quasi tutte le città del mondo, da Città del Capo, in Sudafrica, a Chongqing, in Cina. Anna Minton, autrice di Ground control, afferma che anche in Gran Bretagna “ambienti ‘difendibili’ altamente controllati, sorvegliati dalla tecnologia e progettati per attirare certe persone e allontanarne altre”, sono diventati il modello per i nuovi progetti di urbanizzazione del territorio.
“Il Cairo in cui siamo cresciuti è morto, tutti i nostri coetanei vogliono andare nelle nuove comunità”, mi ha detto una coppia di sposi ventenni alla fiera Next Move. Forte dell’approvazione dei giovani delle élite, l’adesione del Cairo alla tendenza internazionale di dividere con un muro il proprio futuro urbano - segnato soprattutto dalla bomba a orologeria della crescita demografica - sembra un fatto compiuto.
Eppure l’ascesa delle città satellite non è un destino prestabilito. Dopo la caduta di Mubarak, due ex ministri per la casa e alcuni architetti delle città satellite sono stati arrestati con l’accusa di corruzione. Ma non sono solo le sfide legali a ostacolare le città satellite nell’Egitto postrivoluzionario. Guidando su un’autostrada deserta per un’ultima visita al Nuovo Cairo sono rimasto colpito dalla trascuratezza dello spazio intorno a me: lo squallore dei siti in costruzione, i crateri aperti sulla strada, l’incurante abbandono di tubazioni, cavi telefonici, segnali stradali sparpagliati lungo la strada.
Il vecchio Cairo riesce ancora a tenere insieme persone ed edifici, come un ecosistema. Dall’altra parte c’è il Nuovo Cairo, l’esito pasticciato di un esperimento di isole dell’alta società, slegate l’una dall’altra, anche dalla città che le ha generate. È un mondo di finestrini chiusi, come a Los Angeles. Qui non si vedrà mai qualcuno camminare, a parte qualche cane randagio. È un mondo sterile e artificiale, in un paese che sta finalmente cominciando a chiedere a gran voce un cambiamento politico e sociale.

Forse il desiderio di starsene per conto proprio segnerà il trionfo delle città satellite, ma ora — su quest’autostrada, in questo tramonto di un tardo pomeriggio primaverile — ho l’impressione che la voglia di cambiamento segnerà la loro rovina.