Bene! Siete capitati in questa pagina che non c'entra nulla con l'antico Egitto ma potrebbe essere enormemente più interessante. Ho dedicato alcune pagine di Aton-Ra.com al più grande giornalista italiano: Tiziano Terzani.

Tiziano Terzani

Consiglio a chi non conoscesse Tiziano Terzani (e sono molti purtroppo) di scaricare e ascoltare questa bellissima intervista in mp3. La registrazione inizia con un ricordo delle persone che lo hanno conosciuto. Seguono due interviste a Terzani: la prima a Controradio di Firenze, la seconda, più lunga ed articolata a Radio Popolare di Milano. In questa lunga intervista Trezani parla del famigerato "scontro di civiltà" caldeggiato dai neocon e dalla guerra al terrorismo. Nelle guerre dell'amministrazione Bush-figlio non c'è stata nessuna copertura delgi eventi da parte del giornalismo indipendente, completamente escluso dal teatro degli eventi. Una scaltra strategia di comunicazione ha reso possibile nascondere o giustificare le barbarie degli "alleati" come ad esempio le escuzioni di massa e il ricorso alla tortura che - proprio ora - con la nuova amministrazione Obama, stanno venendo alla luce sui media internazionali. - "L'admin" di www.aton-ra.com

Il libro è nato come una pacata riflessione di Tiziano Terzani sulla guerra in Afganistan e sulle esaltate prese di posizione della sua concittadina Oriana Fallaci che in quel periodo vomitava la sua bile sul maggiore quotidiano italiano. (Il libro "Lettere contro la guerra" è acquistabile in italiano anche in edizione economica su IBS). La versione inglese è libera per volontà dello stesso Tiziano Terzani e della sua famiglia.


Clicca qui per ascoltare o scaricare l'mp3 di una splendida intervista a Tiziano Terzani realizzata da Radio Popolare di Milano

In questa brillante intervista che dura oltre un'ora, Tiziano Terzani parla in modo straordinariamente lucido e appassionato della situazione venutasi a creare dopo l'11 settembre e l'attacco americano a Afganistan e Iraq. Assolutamente da non perdere!

Alcune notizie su Tiziano Terzani

Tiziano Terzani (Firenze 1938 – valle di Orsigna, Pistoia 2004) scrittore e giornalista.
Terzani è stato uno dei più grandi giornalisti internazionali. Corrispondente in Asia per il settimanale tedesco "Der Spiegel" – a partire dal 1971 e per trent'anni collaborò anche con "Repubblica" e il "Corriere della Sera".
Profondo conoscitore dei paesi asiatici (in particolare del Sud-Est asiatico), che raccontò nei suoi reportage e nei suoi libri. Terzani visse per lungo tempo a Singapore, Hong Kong, Pechino, Tokyo e Bangkok; nel 1994 si trasferì in India.

Nel 1973 Tiziano Terzani pubblicò il primo libro, Pelle di leopardo, sulla guerra del Vietnam, e nel 1975 fu l'unico giornalista occidentale a rimanere a Saigon (oggi Ho Chi Min) dopo la fuga delle truppe statunitensi e ad assistere alla presa di potere dei comunisti, che racconterà nel libro Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976). In seguito fu uno dei primi giornalisti a tornare in Cambogia dopo l'invasione del paese da parte dei vietnamiti, esperienza rievocata in Holocaust in Kambodscha (1981).

La porta proibita (1985) racconta invece gli anni in cui visse in Cina (Terzani parlava perfettamente il cinese). La sua permanenza in Cina terminò con l'espulsione per “attività controrivoluzionaria”.
Buonanotte signor Lenin (1992) è dedicato al crollo dell’Unione Sovietica.

Un indovino mi disse (1995)- il suo libro di maggior successo - è il resoconto di un anno vissuto come corrispondente nei paesi del Sud-Est asiatico senza mai usare un aeroplano per spostarsi. Per chi non abbia mai letto nulla di Terzani è senz'altro questo il libro da cui cominciare.

Tiziano Terzani: "Lettere contro la guerra"

Tiziano Terzani è stato un pacifista convinto (dopo essere stato per trent'anni su tutti i fronti di guerra), impegnato contro le guerre e contro i fanatismi, di qualsiasi tipo essi siano, nel 2002 pubblicò Lettere contro la guerra, una meditazione sugli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 e sulla risposta del mondo occidentale a tali atti. L'ultimo libro, Un altro giro di giostra (2004), che trae spunto dalla scoperta di essere malato di tumore, è il racconto della malattia e della ricerca di una cura, ma anche un testamento spirituale, una riflessione sull’epoca contemporanea.

Breve cronologia della vita di Tiziano Terzani

tratta dal sito a lui dedicato www.tizianoterzani.com (a cura di Àlen Loreti)

1938. Tiziano Terzani nasce il 14 settembre del 1938 a Monticelli, quartiere di Firenze. A 17 anni conosce Angela Staude, sua futura moglie (nata nel 1939 a Firenze da genitori tedeschi, padre pittore e madre architetto).

1961. Tiziano Terzani si laurea con lode in Giurisprudenza presso il Collegio Medico-Giuridico di Pisa, l'attuale Scuola Superiore Sant'Anna, frequentata grazie all'ottenimento di una borsa di studio su concorso pubblico bandito nel 1957 dallo stesso collegio.

1965. Terzani mette piede per la prima volta in Asia, quando viene inviato in Giappone dall'Olivetti per tenere alcuni corsi aziendali.

1969. Tiziano Terzani consegue un Master in Affari Internazionali alla Columbia University di New York seguendo corsi di storia e lingua cinese. Nell'agosto dello stesso anno nasce il primo figlio, Folco. Ansioso di partire per l'Asia, rinuncia alle richieste di grandi quotidiani come "il Giorno", bussa alle porte del The Guardian e Le Monde, finendo per accettare un contratto con il settimanale tedesco Der Spiegel che lo manda a Singapore: diventa così corrispondente dall'Asia, lo sarà per 30 anni.

1971. A marzo nasce la secondogenita, Saskia.

1973. Terzani pubblica Pelle di Leopardo dedicato alla guerra in Vietnam.

1975. Tiziano Terzani è tra i pochi giornalisti al mondo a rimanere a Saigon: assiste così alla presa di potere da parte dei comunisti. Da questa esperienza nascerà Giai Phong! La liberazione di Saigon (1976). Il libro viene tradotto in varie lingue e selezionato in America come "Book of the Month".

1979. Dopo quattro anni passati ad Hong Kong, Terzani si trasferisce, sempre con la famiglia, a Pechino. Fra i primi corrispondenti a tornare a Phnom Penh dopo l'intervento vietnamita in Cambogia, racconta il suo viaggio in Holocaust in Kambodscha (1981).

1984. Il lungo soggiorno di Tiziano Terzani in Cina si conclude a febbraio con l'arresto per "attività controrivoluzionarie" e successiva espulsione. L'intensa esperienza cinese, con il suo drammatico epilogo, dà origine a La porta proibita (1985), pubblicato contemporaneamente in Italia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.

1985. Tiziano Terzani risiede ad Hong Kong per tutto l'anno, poi si trasferisce a Tokyo dove rimane fino al 1990, quindi a Bangkok.

1991. In agosto, mentre si trova in Siberia con una spedizione sovietico-cinese, apprende la notizia del golpe anti-Gorbacëv e decide di raggiungere Mosca. Il lungo viaggio diventerà Buonanotte, Signor Lenin! (1992), uscito anche in Germania e Gran Bretagna. Questo libro rappresenta una fondamentale testimonianza in presa diretta del crollo dell'impero sovietico e viene selezionato per il Thomas Cook Award, il premio inglese per la letteratura di viaggio. Collabora nel frattempo, già dalla metà degli anni ottanta, con diversi quotidiani e riviste italiane (Corriere della Sera, la Repubblica, L'Espresso) e con la radio e tv svizzera in lingua italiana insieme all'amico Leandro Manfrini.

1994. Tiziano Terzani si stabilisce in India con la moglie Angela Staude, scrittrice, e i due figli.

1995. Esce il capolavoro di Terzani: "Un indovino mi disse" (1995) è la cronaca di un anno vissuto come corrispondente dall'Asia senza mai prendere aerei e visitando ogni sorta di indovini: il libro ottiene un notevole successo di critica e di pubblico. E' assolutamente il libro da cui comincire se non avete mai letto nulla di Tiziano Terzani!

1997. A ritorno da Calcutta Terzani avverte i primi sintomi che porteranno alla diagnosi di cancro. Ad Orvieto gli viene conferito il prestigioso Premio Luigi Barzini all'inviato speciale.

1998. La sua esperienza lo accredita a livello internazionale tra i massimi conoscitori del continente asiatico: in questo anno pubblica In Asia dove descrive le multiformi realtà storiche, culturali ed economiche del continente. Un libro a metà tra reportage e racconto autobiografico.

2001. Pochi mesi dopo gli attentati dell'11 settembre e dell'attacco militare degli Stati Uniti in Afghanistan, interviene nel dibattito sul terrorismo pubblicando Lettere contro la guerra (I ed. marzo 2002), dedicate al nipote Novalis. Il libro per i suoi contenuti decisamente forti, ma onesti, viene rifiutato da tutti gli editori di lingua anglosassone. Significativa, anche se non molto conosciuta, la protesta dell'Ambasciata americana a Roma, che sottolinea la gravità di alcuni passaggi del libro. Comunque sia, per contrastare questa "censura", Terzani paga di tasca propria la traduzione del libro e la rende disponibile gratuitamente su internet nel sito del "Fun" Club, dimostrando così una libertà assoluta delle proprie opinioni. Curiosamente proprio in India comincia a girare una copia in inglese: Terzani stesso racconterà divertito questo episodio, a riprova di come la censura non possa nulla contro la libertà di sapere, ribadendo una volta per tutte come "i fatti siano un velo dietro cui si nascondono le verità". E la sete di verità - in un mondo in piena guerra - è legittimamente tanta.

2002. Tiziano Terzani inizia il "pellegrinaggio di pace" attraverso scuole e incontri pubblici appoggiando la causa di Emergency "Fuori l'Italia dalla guerra" insieme a Gino Strada. Questo impegno civile viene documentato in due modi. Il primo è raccolto in un volume di Federica Morrone dal titolo Regaliamoci la Pace. Una lunga conversazione con Tiziano Terzani con allegati quindici contributi per una cultura di pace tra cui spiccano il Nobel Dario Fo, Gianni Mina', Vauro, Alda Merini, Margherita Hack, Padre Zanotelli, Giulietto Chiesa ecc. (prima ediz. novembre 2002). Il secondo documento dell'impegno civile di Terzani è raccolto in un filmato che esce un mese più tardi con la nuova edizione di "Lettere contro la guerra". La vhs "Tiziano Terzani - Il kamikaze della pace" è un film-documento di circa un'ora realizzato dalla Radiotelevisione Svizzera in lingua italiana che vede la partecipazione di Jovanotti. Qui Terzani parla della sua vita, ma anche dell'attualità della guerra e dei valori di pace e civiltà che l'Uomo sta calpestando senza remore.

2004. Nel marzo 2004 Tiziano Terzani pubblica Un altro giro di giostra - Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo dove parla di sé, della sua malattia e di come "vede il mondo". Il 19 aprile 2004 registra un'ultima intervista radiofonica nella sede della storica emittente fiorentina Controradio (il dialogo verrà poi raccolto in un cd allegato al mensile "Rossofiorentino").
Il 27 e 28 maggio rilascia al regista milanese Mario Zanot una lunga intervista filmata che diventerà poi un film: Anam, il senzanome.

Quattro mesi dopo, il 28 luglio, proprio mentre tutte le sue opere vengono ristampate in edizione economica, si spegne nella sua casa all'Orsigna, piccolo borgo sull'Appennino pistoiese. Ma prima di "lasciare il suo corpo", raccoglie i suoi pensieri in un lungo dialogo autobiografico con il figlio Folco dal titolo La fine è il mio inizio.

2006. Viene pubblicato il libro di riflessioni La fine è il mio inizio. Libro bellissimo ed indispensabile per capire la straordianaria vita professionale di Tiziano Terzani.

2008. Esce il libro postumo di Tiziano Terzani: Fantasmi - Dispacci dalla Cambogia. Il libro contiene una lunga ed interessantissima prefazione della moglie Angela. Terzani è stato molte volte in Cambogia e ha anche rischiato di essere fucilato. Dopo aver letto e riletto tutti i sui altri libri sono stato contentissimo di poter iniziare una nuova lettura. Nota: su IBS trovate il libro a prezzo scontato.

Fantasmi - Dispacci dalla Cambogia

Questo libro di Tiziano Terzani raccoglie gli articoli, i messaggi, i telegrammi, le corrispondenze inviate dalla Cambogia in guerra ai giornali europei: a Der Spiegel, di cui era corrispondente fisso dall’Asia, al Giorno, all’Espresso, al Messaggero, alla Repubblica e, dal 1988, al Corriere della Sera. Sono pagine intense, sospese tra l’illusione di una nuova era per l’Indocina e l’autocritica che il giovane reporter esercitò senza remore, di fronte ai drammatici eventi descritti con la sua Lettera 22. Il libro inizia con i pezzi sui bombardamenti americani in Cambogia nel ‘73, i caccia bombardieri F-111 che saettavano nel cielo, il ronzare dei B-52 che nel giro di un secondo potevano cancellare un intero villaggio: Terzani, giunto a Singapore all’inizio del ’72, si era spostato a Phnom Penh nel marzo dell’anno seguente e aveva trovato un Paese assediato dalle bombe e dalla miseria. Al governo c’era il generale Lon Nol che, nel 1970, sostenuto dalla Cia, aveva rovesciato il re Sihanouk e aveva preso il potere senza godere di alcuna simpatia da parte della popolazione. Terzani vedeva i mercanti e gli ufficiali di quella repubblica, arricchiti dalla guerra, pranzare sulle verande degli alberghi mentre per le strade la gente era costretta dalla fame a mangiare i cani randagi e a scortecciare gli alberi per fare la legna per cucinare. In quello scenario di coprifuoco e rovine, c’era la grande attesa per l’arrivo dei Khmer Rossi, i “partigiani”, il movimento comunista clandestino formato da Khieu Samphan e Saloth Sar, il futuro Pol Pot. “I guerriglieri – scriveva il giornalista fiorentino nell’agosto del ’74 – controllano l’80 per cento del paese, hanno le risaie, la regione con le rovine di Angkor, tengono in mano tutte le strade… si sono anche presi il vecchio importante centro buddista di Udong.” In quel clima di tensione per l’arrivo della svolta, Terzani si spostò al confine con la ricca Thailandia e nella piccola cittadina di Poipet, appena invasa dai guerriglieri rossi, rischiò di morire fucilato perché scambiato per “Ameriki! Ameriki!”, come gli urlava il quindicenne che per ore lo tenne al muro con una pistola puntata al volto. Liberato, perché grazie a un commerciante cinese venne riconosciuto come non americano, Terzani attraversò quello stretto ponte di ferro che costituiva la frontiera tra Thailandia e Cambogia convinto che alle sue spalle, al di là di quel ponte, finisse non solo il paese della corruzione, dei repubblichini arricchitisi con i dollari dei militari Usa, ma anche che cominciasse una Cambogia diversa: quella dei contadini, la Kampuchea Democratica come l’avrebbero ribattezzata i Khmer Rouge, povera, dura e popolare. Invece non ci fu neanche il tempo di festeggiare l’ingresso dei “liberatori” nella capitale che una cortina di silenzio calò sul paese: 4 milioni di abitanti furono trasferiti in pochi giorni con una forzata migrazione, dalle città nella campagna. Tutti i mezzi di trasporto vennero collettivizzati, il danaro eliminato e l’intera popolazione fu costretta a partecipare al lavoro nelle risaie e a vasti progetti di opere pubbliche. I giornalisti occidentali furono espulsi da Phnom Penh e se, per il nuovo regime di Pol Pot, il paese era un’”immensa officina”, Terzani nel ’76 raccontava la tabula rasa realizzata dall’epurazione e confermava ciò che dicevano i rifugiati scampati ai massacri di un esercito di ragazzini ai danni dei propri connazionali. Scuole, biblioteche, chiese e pagode furono chiuse; insegnanti, intellettuali, chiunque avesse legami con la memoria del passato fu ucciso. “Non c’è persona oggi in Cambogia – scrisse Terzani nell’80 – che non abbia perso un familiare, la stima di 3 milioni di cambogiani uccisi o morti di fame tra il 1975 e il 1978 non dovrebbe essere esagerata.” Il giornalista ricostruì l’orrore onnipresente: fosse comuni e stragi in nome di un comunismo nazionalista e rurale, rozzo e primitivo, in nome della “purezza khmer” anti-thailandese e anti-vietnamita (i nemici storici del nord e del sud). Da quei Killing fields, dai teschi delle vittime accatastati nel crudo ed efficace “museo dell’orrore” di Tuol Sleng, prenderà corpo la svolta che porterà Terzani ad abbandonare ogni fiducia nell’ideologia, in cui pure aveva creduto, per iniziare un nuovo cammino di ricerca. Perché in Cambogia, l’unico paese dell’Asia che visiterà per altri 25 anni, Terzani vide in piccolo la tragedia del mondo in grande. E questo libro, Fantasmi, spiega le ragioni che lo hanno spinto a voltare le spalle al mondo e a cambiare direzione

Ettore Mo - Terzani in Cambogia: illusione e autocritica

È davvero emozionante, per me, ripercorrere la carriera e la vita (che vita!) di Tiziano Terzani, sfogliando le pagine del suo libro postumo che s'intitola Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia (Longanesi) dove sono condensati i messaggi, i telegrammi, le corrispondenze — brevi e lunghe — che per anni ha inviato da quel Paese in guerra ai giornali con cui collaborava: a cominciare da Der Spiegel, di cui era corrispondente fisso dall'Asia, quindi al Giorno, all'Espresso,al Messaggero, alla Repubblica e, dal 1988, al Corriere della Sera. Nell'ampia prefazione la moglie Angela Terzani Staude racconta con dovizia di particolari ed episodi toccanti le tappe di quel lungo peregrinare in Indocina, Vietnam, Laos, Cambogia. Ma i suoi dispacci provengono soprattutto da questa contrada, dove ha rischiato di morire fucilato dai khmer rossi nella cittadina di confine (con la Thailandia) di Poipet, appena invasa dai guerriglieri di Pol Pot: esperienza non condivisa con nessuno, essendo il solo giornalista presente, ma dalla quale esce affranto. Rientrato a Singapore, «gira per casa come un leone malato — ricorda la moglie —, un leone che ha perso l'orientamento». Tiziano comincia a «coprire» (come si dice nel gergo) la Cambogia all'inizio del '73 e «s'innamora di Phnom Penh, la più bella delle tre capitali costruite dai francesi in Indocina », davanti al fiume Mekong «immenso e luminoso»: nella capitale cambogiana arrivano presto anche i giornalisti delle grandi testate internazionali, New York Times, Washington Post, Le Monde: ma vi sbarca pure un inviato italiano, Bernardo Valli, che diventerà suo amico, esperto di guerre che stava «a letto a leggere I tre moschettieri ». E tuttavia, in mezzo al frastuono o fracasso di cannonate e bombe, Valli rievocherà quei giorni con un sorriso: «Ci siamo divertiti da pazzi».

Terzani aveva 33 anni e nella sua testimonianza Angela ricorda che quelli erano i suoi anni felici. Dei khmer rossi all'epoca si sapeva poco o nulla, ma Tiziano è tra i primi a fornire qualche informazione sulla loro esistenza ai giornali europei. Per Terzani, «nel 1970 la Cambogia era un Paese piccolo e insignificante con 6 milioni di abitanti... Era un Paese che viveva in pace, governato da un estroso e astuto principe, Sihanouk, un signore feudale che considerava la Cambogia come sua proprietà e i cambogiani come i suoi "figli"». Il governo era nelle mani di Lon Nol, che godeva di scarse simpatie tra la popolazione. Sihanouk è un re-playboy che s'era anche rifugiato a Pechino e a Pyongyang, e che Tiziano definisce «un uomo senza grandezza». Aggiungendo: «Non l'ho mai sentito fare una riflessione umana intelligente sulla storia di questi anni, sui khmer rossi, sul ruolo degli uomini nella tragedia. C'è in quest'uomo una piccolezza spaventosa, una mancanza di grandezza umana. È un re, un despota». In un articolo per L'Espresso inviato nell'agosto del '73, Terzani così descrive le condizioni sociali dei cambogiani più poveri: «Davanti all'albergo Le Phnom, sulla cui veranda si riposano gli ufficiali e i mercanti di questa Repubblica arricchiti dalla guerra, ho visto donne che scortecciano gli alberi per fare legna per cucinare... Ho visto cenare una famiglia di sei bambini.

La madre ha ciucciato per prima una palla di riso che è poi passata di bocca in bocca». In un altro dispaccio del febbraio del '74, l'incipit è il seguente: «Il coprifuoco comincia alle sette e nemmeno i cani restano per le strade perché in queste settimane di assedio e di fame la gente ha finito per mangiarseli». In un successivo messaggio, riprende le parole di un ufficiale che dice: «Prima della guerra i turisti venivano in Cambogia per vedere le rovine di Angkor Wat. Quando ci sarà di nuovo la pace — ne verranno molti di più, perché allora la Cambogia sarà un Paese di rovine». E ancora: «Siamo tutti khmer eppure ci ammazziamo a vicenda. La Cambogia è il nostro Paese eppure lo stiamo distruggendo». Quando i khmer rossi entrarono a Phnom Penh, la città era senza riserve di cibo. I suoi due milioni di abitanti erano tenuti in vita giorno per giorno dal ponte aereo americano. L'unico modo di sfamare la gente era mandarla nelle campagne, dove anche le radici di alcune piante potevano, in un primo momento, tenerle in vita. L'evacuazione fu una misura radicale, draconiana. «Oggi — scrive Terzani in un articolo del giugno '76 — la Cambogia produce più riso di quanto ne consuma e ha cominciato l'esportazione. "Il Paese è un'immensa officina", dice Radio Phnom Penh. "È un campo di concentramento", ribattono i rifugiati», che «hanno trovato "atroce" l'evacuazione verso la campagna e ancor più terribili le dodici ore di lavoro al giorno richieste a ognuno, compresi bonzi, donne e bambini». E con riferimento all'immagine di una Cambogia retta dai sanguinari khmer rossi, ricorda che Radio Phnom Penh conclude la trasmissione quotidiana intonando l'inno nazionale, che è un truce peana con versi come questi: «Oh, sangue rosso, sangue brillante che copri le città e le pianure della patria...». 20 ottobre 1979. Altra raccapricciante corrispondenza: «La razza khmer sta per scomparire dalla faccia della terra. Nel 1975, alla fine di cinque anni di guerra americana, che aveva fatto un milione di vittime, i cambogiani erano almeno sette milioni. Dal 1975 alla fine del 1978, i khmer rossi, col loro folle comunismo, hanno massacrato e lasciato morire di stenti da due a tre milioni di loro compatrioti. Ora, altri due milioni stanno per morire di fame, di malaria, forse di peste, in un Paese i cui campi sono abbandonati e dove la guerra continua, giorno dopo giorno. Contrariamente ad altri popoli, i cambogiani non si riproducono più. La maggior parte delle donne, come le risaie, non sono più fertili. Accanto alle fosse comuni scavate in passato, per seppellire le vittime torturate, soffocate, impalate, bastonate dai soldati di Pol Pot, si scavano ora le fosse comuni per le vittime della lenta morte per inedia».

Pol Pot è morto impunito nell'aprile del 1998. «È morto — scrive Terzani — senza che nessuno facesse i conti con lui». Le stragi da lui commesse, la montagna di teschi del centro di tortura di Toul Sleng, diventato ora il Museo del genocidio, erano note già alla fine degli anni Settanta, in gran parte raccontate dai cambogiani profughi in Thailandia. Ma nonostante questo non ci fu nessuna protesta internazionale, nessuna commissione per i diritti umani si recò in Cambogia, nessun organo delle Nazioni Unite intervenne a fermare il massacro. Anzi, Pol Pot e i suoi khmer rossi vennero riconosciuti dalla comunità internazionale come il governo «legittimo» della Cambogia e come tali occuparono il seggio cambogiano all'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel dicembre 1978 fu il Vietnam a intervenire. I khmer rossi, secondo l'autore di Fantasmi, non sono stati un'aberrazione, sono i figli ideologici di Mao Zedong. Sono stati allevati e tenuti a battesimo in Cina; Pechino ha enormi responsabilità, sapeva e approvava. I grandi massacri di Phnom Penh fra il 1975 e il 1979 ebbero luogo nel liceo Tuol Sleng, a poche decine di metri dall'ambasciata cinese, dove non solo si potevano sentire le urla delle vittime, ma si teneva il conto della gente che veniva via via eliminata.

Un altro giro di Giostra

Un altro giro di Giostra è uno dei migliori libri di Tiziano Terzani. L'11 marzo 2004, il Corriere aveva anticipato un capitolo di «Un altro giro di giostra». In questo capitolo Terzani racconta il suo viaggio in America, dove era andato per curarsi.

La rivelazione della malattia, accolta dapprima con stupore misto a incredula indifferenza, in seguito con la frenesia di cure, visite, esami diagnostici e terapie, ha rappresentato per Terzani l’opportunità di compiere una riflessione sul significato dell’esistenza, tanto più intensa e coinvolgente in quanto intima e personale, vissuta sulla propria pelle. Di fronte all’imprevedibilità di un mare incurabile, anche il viaggiatore coraggioso, il cronista avventuroso, l’inviato di guerra sprezzante del pericolo si sente disarmato e vulnerabile, ma non si tira indietro. “Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere – scrive nelle prime pagine – e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.” Il suo percorso di ricerca si snoda sulla scia della medicina tradizionale e alternativa: lo porta dapprima a New York e in un centro della California; segue un lungo girovagare per l’India, compresi tre mesi passati da semplice novizio in un ashram. E poi le Filippine, ancora gli Stati Uniti (a Boston), Hong Kong e la Thailandia. Infine, il ritorno nella quiete della regione himalayana, dove Terzani ha deciso di ritirarsi a vivere per molti mesi dell’anno. Tappa dopo tappa, il viaggio esterno alla ricerca di una cura si trasforma in un viaggio interiore, alla ricerca delle radici divine dell’uomo e all “scoperta” della “malattia che è di tutti: la mortalità.” Questa consapevolezza non significa però arrendersi al male. Al contrario, il libro di Terzani è un invito alla speranza e alla vita, un’esortazione a cercare l’unica cura risolutiva all’interno di se stessi. “La storia di questo viaggio non è la riprova che non c’è medicina contro certi malanni… tutto, compreso il malanno stesso, è servito tantissimo. E’ così che sono stato spinto a rivedere le mie priorità, a riflettere, a cambiare prospettiva e soprattutto a cambiare vita. E questo è ciò che posso consigliare ad altri: cambiare vita per curarsi, cambiare vita per cambiare se stessi.”

«Avevo l'impressione che a goderci la bellezza di Manhattan eravamo davvero in pochi»

Luci di un'alba a New York dove la felicità non è di casa

di Tiziano Terzani

In India si dice che l'ora più bella è quella dell'alba, quando la notte aleggia ancora nell' aria e il giorno non è ancora pieno, quando la distinzione fra tenebra e luce non è ancora netta e per qualche momento l' uomo, se vuole, se sa fare attenzione, può intuire che tutto ciò che nella vita gli appare in contrasto, il buio e la luce, il falso e il vero non sono che due aspetti della stessa cosa. Sono diversi, ma non facilmente separabili, sono distinti, ma «non sono due». Come un uomo e una donna, che sono sì meravigliosamente differenti, ma che nell' amore diventano Uno.

Quella è l' ora in cui in India - si dice - i rishi, «coloro che vedono», meditano solitari nelle loro remote caverne di ghiaccio nell' Himalaya caricando l' aria di energie positive e permettendo così anche ai principianti di guardare, appunto in quell' ora, dentro di sé, alla ricerca della spiegazione di tutto.

Non so dove meditassero i rishi americani, ma l'alba era anche per me a New York l'ora più bella, quella in cui davvero l'aria mi pareva più carica di qualcosa di buono e di speranza. Certo era così perché i primi, rassicuranti bagliori del nuovo sole scioglievano, specie per un ammalato, le paure della notte, ma anche perché, affondata ancora in un relativo silenzio, la città, senza le folle dei suoi abitanti, era al suo poetico meglio: con le cartacce che svolazzavano come gabbiani per le grandi, dritte strade deserte, qualche raro taxi che lentamente andava in cerca di un primo cliente e i barboni ancora raggomitolati nelle loro coperte sui bocchettoni di sfiato della metropolitana. Misteriosi buchi qua e là nell' asfalto soffiavano in aria strane colonne di vapore bianco, come fossero le narici dei draghi ancora addormentati nelle viscere calde di quello straordinario cuore di New York che è Manhattan.

Nella doppia luce di quell'ora la città stessa sembrava meditabonda, raccolta su di sé, concentrata sul suo essere, prima di diventare il campo di battaglia delle infinite guerre che ogni giorno si celebrano sulle scrivanie e nei letti dei suoi palazzi, ai tavoli dei suoi ristoranti, per le strade e nei suoi parchi: guerre di sopravvivenza, di potere, di avidità.

New York mi piaceva moltissimo. Adoravo, quando ero in forze, attraversarla in lungo e in largo, a piedi, a volte per ore di seguito. Ma mi era anche impossibile in certi momenti non sentire il carico di lavoro, di dolore e sofferenza che ogni suo grattacielo rappresentava. Guardavo il Palazzo delle Nazioni Unite e pensavo a quante parole e quante menzogne, a quanto sperma e quante lacrime venivano versate nell' inutile tentativo di gestire una umanità che non può essere gestita, perché il solo principio che la domina è quello dell' ingordigia e perché ogni individuo, ogni famiglia, ogni villaggio o nazione pensa solo al suo e mai al nostro. Camminavo davanti al Plaza Hotel, passavo davanti al Waldorf Astoria, i grandi, famosi alberghi di New York, dove sono scesi e scendono ancora i dittatori, i capi di Stato e di governo, le spie e i rispettabili assassini di mezzo mondo, e ripensavo alle decisioni prese, ai complotti che, orditi in quelle stanze, hanno cambiato i destini di vari Paesi rovesciandone i regimi, uccidendone gli oppositori o facendo sparire nel nulla qualche dissidente prigioniero.

Guardavo le insegne delle banche, le bandiere che sventolavano sugli edifici delle grandi società di varie nazionalità e di vari intenti, ma tutte, immancabilmente, con radici qui e immaginavo come qualche signore incravattato - uno per il quale nessuno ha votato, del quale i più non han mai sentito pronunciare il nome, uno che sfugge al controllo di tutti i parlamenti e di tutti i giudici del mondo - avrebbe da lì a qualche ora deciso, in nome del sacrosanto principio del profitto, di ritirare miliardi di dollari investiti in un Paese per metterli in un altro, condannando così intere popolazioni alla miseria.

La razionale follia del mondo moderno era tutta concentrata lì, in quei pochi, meravigliosi, vitali chilometri quadrati di cemento fra l'East River e l'Hudson, sotto un cielo terso, sempre pronto a riflettere l' increspato splendore delle acque. Quello era il cuore di pietra del dilagante, disperante materialismo che sta cambiando l' umanità; quella era la capitale di quel nuovo, tirannico impero verso il quale tutti veniamo spinti, di cui tutti stiamo diventando sudditi e contro il quale, istintivamente, ho sempre sentito di dovere, in qualche modo, resistere: l'impero della globalizzazione. E proprio lì, lì nel centro ideologico di tutto quel che non mi piace, ero venuto a chiedere aiuto, a cercare salvezza! E non era la prima volta. A trent' anni c' ero arrivato, frustrato da cinque anni di lavoro nell' industria, per rifarmi una vita come la volevo. Ora c' ero tornato per cercare di guadagnare tempo sulla scadenza di quella vita. Anche la prima volta avevo sentito forte la profonda contraddizione fra la naturale gratitudine per ciò che l' America mi dava - due anni di libertà pagata per studiare la Cina e il cinese alla Columbia University per prepararmi a partire da giornalista in Asia - e il disprezzo, il risentimento, a volte l' odio, per ciò che l' America altrimenti rappresentava.

Quando nel 1967 Angela e io, entusiasti, sbarcammo a New York dalla Leonardo da Vinci che ci aveva presi a bordo una settimana prima a Genova, l' America cercava, con una guerra sporca e impari, di imporre la sua volontà a un misero popolo asiatico armato solo della sua cocciutaggine: il Vietnam. Ora l' America, con una ben più sofisticata, meno visibile e per questo meno resistibile aggressione, stava cercando di imporre al mondo - assieme alle sue merci - i suoi valori, le sue verità, le sue definizioni di buono e di giusto, di progresso e... di terrorismo.

A volte, vedendo entrare e uscire dai grandi, famosi edifici della Quinta Strada o di Wall Street eleganti signori con le loro piccole valigette di bel cuoio, mi veniva il sospetto che quelli fossero gli uomini da cui bisognava guardarsi e proteggersi. In quelle borse, camuffati come «progetti di sviluppo», c' erano i piani per dighe spesso inutili, per fabbriche tossiche, per centrali nucleari pericolose, per nuove, avvelenanti reti televisive che, una volta impiantate nei Paesi a cui erano destinate, avrebbero fatto più danni e più vittime di una bomba. Che fossero loro i veri «terroristi»?

Con le strade che si popolavano subito dopo l'alba, New York perdeva ai miei occhi la sua aria incantata e a volte mi appariva come una mostruosa accozzaglia di tantissimi disperati, ognuno in corsa dietro a un qualche sogno di triste ricchezza o misera felicità. Alle otto la Quinta Strada, a sud di Central Park, a un passo da casa mia, era già piena di gente. Zaffate di profumi da aeroporto mi riempivano il naso a ogni donna che, correndo col solito cartoccio della colazione in mano, mi sfiorava per entrare in uno dei grattacieli. Che modo di cominciare una giornata! (...) La folla a quell' ora era di gente per lo più giovane, bella e dura: una nuova razza cresciuta nelle palestre e alimentata nei Vitamin-shops. Alcuni uomini più anziani mi pareva di averli già visti in Vietnam, allora ufficiali dei marines, e ora, sempre dritti e asciutti nell' uniforme di businessman, sempre «ufficiali» dello stesso impero, impegnati a far diventare il resto del mondo parte del loro villaggio globale.

Quando stavo a New York la città non era ancora stata ferita dall' orribile attacco dell' 11 settembre e le Torri gemelle spiccavano snelle e potenti nel panorama di Downtown, ma non per questo, anche allora, l' America era un Paese in pace con se stesso e col resto del mondo. Da più di mezzo secolo gli americani, pur non avendo mai dovuto combattere a casa loro, non hanno smesso di sentirsi, e spesso di essere, in guerra con qualcuno: prima col comunismo, con Mao, con i guerriglieri in Asia e i rivoluzionari in America Latina; poi con Saddam Hussein e ora con Osama bin Laden e il fondamentalismo islamico. Mai in pace. Sempre a lancia in resta. Ricchi e potenti, ma inquieti e continuamente insoddisfatti. Un giorno, nel New York Times mi colpì la notizia di uno studio fatto dalla London School of Economics sulla felicità nel mondo. I risultati erano curiosi: uno dei Paesi più poveri, il Bangladesh, risultava essere il più felice. L' India era al quinto posto. Gli Stati Uniti al quarantaseiesimo!

A volte avevo l' impressione che a goderci la bellezza di New York eravamo davvero in pochi. A parte me, che avevo solo da camminare, e qualche mendicante intento a discutere col vento, tutti gli altri che vedevo mi parevano solo impegnati a sopravvivere, a non farsi schiacciare da qualcosa o da qualcuno. Sempre in guerra: una qualche guerra.

Una guerra a cui non ero abituato, essendo vissuto per più di venticinque anni in Asia, era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park, le stavo a guardare. Le donne: sane, dure, sicure di sé, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio - tailleur nero, scarpe nere, borsa nera con il computer - i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava «femminile» è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini.

http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2004/07_Luglio/29/terzani_ultimo.shtml


Giuliano Amato, in questo articolo sul Corriere della Sera racconta la giovinezza comune con Tiziano Terzani.

Ma chi ne fa un guru lo tradisce

Tiziano Terzani fu mio compagno, negli anni universitari, al collegio Sant'Anna di Pisa. Mi diceva: «Voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». In Asia maturò una radicale ostilità verso la guerra. Negli ultimi tempi giunse alla convinzione dell'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, quello della vita: una visione per cui la guerra non ha senso alcuno. Ma non gli renderemmo un buon servizio se ne facessimo un santone del pacifismo.

Non avevamo ancora vent'anni quando ci conoscemmo. Ciascuno di noi veniva dal suo liceo, dalla sua provincia ed essere in quel collegio a Pisa, all'università, significava per Tiziano, per me e per gli altri superare i confini dentro i quali eravamo cresciuti, entrare in un mondo più grande, scrutarlo e cercarci quello che quei confini ci avevano negato. Si crearono, come sempre accade, amicizie più strette e si formarono piccoli gruppi, all'interno dei quali la ricerca avveniva lungo gli stessi percorsi. Ed erano percorsi i più diversi. Potevano essere infinite discussioni notturne sulla Montagna incantata o trasgressive esperienze di coppia, vissute nello stesso collegio contro le regole di allora, che vietavano in radice l'ingresso di ragazze nelle nostre stanze. Giuliano e Diana, Romano ed Elena, Enrico ed Erna e poi Tiziano e Angela fecero da battistrada su questo percorso. E furono insieme anche su altri.
Poi ciascuno prese la sua strada e continuò da solo (o meglio, solo con la sua compagna) la sua ricerca. E fu a quel punto, quando da poco tutti avevamo lasciato il collegio, che capii che la ricerca di Tiziano mirava più lontano di quella degli altri. Come Romano e Carlo aveva aderito alla richiesta di personale che allora la Olivetti indirizzava ai migliori delle università (il personale lo selezionava Paolo Volponi) e si era trovato a bussare alle porte per vendere macchine da scrivere. Lo sapeva che era un'esperienza temporanea, che era la gavetta a cui tutti si dovevano assoggettare in vista di lavori più gratificanti. Ma non la sopportava e soprattutto non vedeva se stesso neppure in quei lavori più gratificanti. Mi telefonava sempre insoddisfatto e mi diceva: «Ma io voglio fare il giornalista in Cina e ci riuscirò». È già grossa detta oggi, da un ragazzo di quell'età, ma allora era enorme. Allora in Cina non si entrava neppure e io gli dicevo: «Tiziano, sei completamente matto, pazienta qualche mese e vedrai che le cose cambiano».
Ma la sua testa non era nell'Olivetti, era in Oriente. Che ci fosse perché già Tiziano sapeva che cosa cercarva e, soprattutto, che cosa ci avrebbe trovato nella stupenda stagione che ha vissuto prima di «abbandonare il suo corpo», io francamente non lo credo. Gli attribuirei di più di quanto già non avesse e lo farei essere quello che ancora non era. Ma è certo che la tenacia, la vera e propria ostinazione con cui si mise a perseguire quel disegno, che io trovavo folle, qualcosa lo provano: almeno emotivamente sentiva che là per lui c'era qualcosa di tanto importante da essere irrinunciabile. E riuscì ad andarci. Cominciò a scrivere per un giornale italiano e queste sue prime credenziali gli consentirono, con l'aiuto credo di Angela e della sua famiglia, di arrivare a Der Spiegel e di divenire inviato dello stesso Spiegel non in Cina, ma ai bordi di questa (come tutti i giornalisti occidentali del tempo). Iniziò così un'avventura che divenne una nuova vita, per lui e per la famiglia che si stava formando.
E fu una vita segnata da cambiamenti profondi, da un inveramento progressivo dell'animo di Tiziano, che oggi ci appare guidato da un filo sicuro, ma che sicuro certamente non fu. Gli costò anni di riflessione, mentre gli passavano sotto gli occhi vicende ora umanissime ora atroci; ed anni di meditazione solitaria con gli occhi puntati sulla montagna e la mente e il cuore a frugare ancora in quelle vicende. Quel filo, insomma, Tiziano se lo è trovato, lo ha districato da chissà quanti altri e ha dato da ultimo un senso straordinario e profondo alla ricerca che aveva cominciato molti anni prima. Per questo alla fine era sinceramente felice e quando se ne è andato ci ha lasciato, non con il senso della morte, ma con la felicità della vita. L'Oriente che si trovò davanti quando vi giunse, e negli anni che seguirono, fu quello del totalitarismo del comunismo cinese, della guerra in Vietnam, dei massacri cambogiani: arbitrii, uccisioni, autentiche stragi, manomissioni della vita e della libertà umane in nome di spietate ideologie. Non era imprevedibile che tutto questo facesse maturare e crescere in Tiziano una ostilità sempre più forte nei confronti della guerra, la convinzione che essa possa trovare delle occasioni, mai delle ragioni.
Meno prevedibile fu che questa ostilità arrivasse nel tempo ad assumere in lui le motivazioni e l'ispirazione che portano il soldato giapponese Mizushima, il protagonista del film L'arpa birmana, a farsi prete buddista e a percorrere l'intera Birmania per trovare e seppellire i suoi compagni morti in guerra. Ma di questo ci accorgemmo, e lui stesso si accorse, molto più tardi. Ho avuto ripetuti contatti con Tiziano nel corso degli anni. Non abbiamo mai smesso di parlare di noi, ogni volta che ci siamo visti; di noi e dei nostri figli, che intanto erano arrivati e cresciuti, e di quello che stavano facendo e che un giorno avrebbero potuto fare insieme (almeno i nostri figli maschi, entrambi legati al teatro). Ma parlavamo anche del mondo e Tiziano, pur consapevole delle radici della violenza nello stesso Oriente, le trovava in primo luogo nel corrosivo individualismo e nella spietata competitività della nostra civiltà occidentale. Lo diceva a me e non si peritava di dirlo in posti come Cernobbio, dove la sua voce era, a dir poco, solitaria e controcorrente.
Ma fin qui una voce del genere, per quanto inusitata a Cernobbio, appariva e veniva intesa come la voce di uno dei tanti occidentali attirati dall'Oriente e da quella civiltà riflessiva di cui l'India (dove infatti Tiziano viveva sempre più a lungo) è una sorta di tempio. Io stesso — devo confessarlo — lo percepivo così, non avevo ancora capito che Tiziano spiritualmente era ancora in cammino, che non era un occidentale pago di guardare criticamente l'Occidente da Oriente, ma continuava a cercare, a cercare se stesso ed il mondo. Lo avrei capito, e lo avremmo capito tutti, nella fase terminale della sua vita, quando lui stesso capì che cosa stava cercando e finalmente lo trovò, guardando la montagna. Cercava, e trovò, la fondamentale unicità del creato, l'essere tutti noi partecipi di un medesimo afflato, che è quello della vita, che passa da una creatura all'altra e che così preserva il mondo, l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, le bellezze che godiamo. E quando ne fu pienamente consapevole, comunicò con gioia ai figli il suo eureka e in tutta serenità si accinse ad abbandonare il suo corpo. Non solo sapeva a quel punto perché sopravviviamo a noi stessi, ma sapeva perché non ha senso alcuno la guerra, e lo sapeva perché vedeva finalmente l'errore di fondo dello schema dialettico, quello che contrappone il mio io a ciò che è altro da me e che sorregge l'opzione fra la pace e la guerra, facendo della scelta della pace una scelta (così ci spiega il realismo) di basilare convenienza.
Non c'è l'altro da me, questo fu l'approdo di Tiziano. E su questo approdo la pace non ha negazione possibile. Credo che sia qui, oltre che nel suo straordinario fascino personale, la ragione dell'amore che lo circonda e della quantità enorme, forse inaspettata, delle persone che continuano a leggerlo, a parlare di lui, ad adunarsi in ogni occasione in cui lo si ricorda. In un mondo in cui ancora prevale la paura, e spesso è paura dell'altro da sé, è fortissimo il bisogno di cancellarla, questa paura, ed è fortissimo perciò il desiderio di pace. Ma non faremmo un buon servizio a Tiziano, né a quello che ci ha lasciato, se ora trasformassimo lui in un santone e Angela e i suoi figli in chierici addetti al suo altare. Se il suo approdo ha un senso, neppure lui è altro da noi ed è a noi che lui stesso ha affidato la continuazione della sua vita. Viviamola, questa vita sua e nostra, dentro noi stessi. Quando seppi della sua morte, venni preso da un pianto irrefrenabile e mentre parlavo per telefono con Angela sentivo che la mia voce era rotta dai singhiozzi. Ora quel senso di morte è scomparso. Perché la vita è davanti a noi, la vita si vive, non si commemora.

Giuliano Amato - 30 luglio 2006