A ognuno il suo mezzo ettaro
Nel più grande paese del mondo arabo il 2 per cento dei cittadini vive con meno di due dollari al giorno, ma non si direbbe guardando i vialetti della città giocattolo di Katameya, dove le quote di ammissione a un circolo partono da 22mila dollari.
La spinta dell’élite del Cairo verso le dune di sabbia va avanti da quasi vent’anni, ma ultimamente i complessi residenziali vengono costruiti più velocemente. Mentre i primi quartieri, come Katameya Heights, erano concepiti per ricchi eccentrici, gli innumerevoli progetti immobiliari di oggi mirano a una fascia più ampia, per quanto privilegiata, di egiziani disposti a lasciare il Cairo. Chiedete a qualunque visitatore della fiera Next Move perché vuole trasferirsi fuori città e sentirete la stessa parola ripetuta più volte: zahma, che significa “traffico”, “confusione”. A favorire l’esplosione demografica del Cairo è stata la politica di Gamal Abdel Nasser che, dopo il colpo distato contro il dominio britannico nel 1952, ha distribuito circa mezzo ettaro di terreno agricolo a ogni nucleo familiare. Man mano che le famiglie crescevano i terreni venivano divisi tra i figli e davano rendimenti sempre più scarsi. Così moltissimi contadini hanno cominciato a migrare verso la capitale, popolando strade già sature: più auto, più edifici e più persone.
Gli edifici costruiti all’interno dei confini della città per ospitare i nuovi arrivati erano spesso fabbricati con materiale scadente. Inoltre i politici non hanno mai avviato un adeguamento delle infrastrutture, lasciando i servizi pubblici in una situazione critica. Il traffico è aumentato e le aree verdi sono talmente poche che per fare un picnic le famiglie hanno a disposizione solo gli squallidi prati accanto alle maggiori arterie cittadine. “Anni fa casa mia era in un bel posto, ma oggi fatico a riconoscerlo. L’intera città è stata trasformata in un’enorme baraccopoli”, mi spiega Anton Girgis, un tecnico delle telecomunicazioni che vive a Giza ed è venuto alla fiera in cerca di una casa fuori città.
L’imponente cittadella del Cairo, costruita nel dodicesimo secolo da Saladino per proteggere il suo impero dai crociati, oggi guarda dall’alto, con regale distacco, un mondo in cui anche l’ultima porzione di spazio residuo è stata spremuta dai suoi occupanti. Sotto di lei c’è la Città dei morti, alcuni chilometri quadrati di tombe dove oggi le salme condividono lo spazio con i vivi. Schiacciati in quest’area vivono cinque milioni di persone. I luoghi di riposo dei defunti sono stati attrezzati con antenne satellitari e le lapidi sono state trasformate in tavoli. Poco distante c’è la baraccopoli di Manshiyet Nasser, che si snoda intorno alle pendici della collina del Mokattam, dove nel 2008, per una frana, morirono più di cento persone.
Sopra la cittadella, in cima all’altura, sta prendendo forma una nuova fortezza. È stata costruita dal braccio egiziano della Emmar, la società di Dubai che ha costruito il Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo. Il suo progetto qui al Cairo si chiama Uptown e il lungo viale d’accesso al suo ufficio vendite è fiancheggiato da gigantografie di famiglie dalla pelle chiara che si divertono sull’erba, preparano barbecue e parcheggiano in garage la loro Mercedes. Ogni immagine è corredata da una singola parola: Upscale, Upmarket, Upbeat. Alle sue spalle, il nulla si spalanca all’orizzonte. Le società immobiliari che stanno creando le più esclusive città satellite del Cairo sfruttano da tempo l’immagine della capitale fatiscente. La retorica della fuga dal caos è un potente strumento di vendita. Ma fuga verso cosa? La sfida più ambiziosa che gli architetti delle nuove comunità urbane devono affrontare è far sembrare il deserto una zona ospitale e d’élite. Un luogo a cui aspirare e non più da disprezzare.