La presunta età dell’oro del Cairo

Per trovare la soluzione a questo problema basta scavare nel passato del Cairo. Alla fine dell’ottocento, il chedivè (viceré) d’Egitto Isma’il Pascià cominciò il progetto che avrebbe caratterizzato il suo regno: la costruzione da zero di quello che oggi è il centro del Cairo, l’inquieto cuore pulsante della città. Con gli ampi viali all’europea che partono a raggiera da piazze ornate da fontane, il Cairo del chedivè offriva a ricchi commercianti, intellettuali e politici non solo uno standard di vita più alto, ma anche una scissione simbolica dalla fatiscente città vecchia: i vicoli del Cairo islamico che ribollivano di umanità e disordine. I balconi e le logge del nuovo quartiere furono presentati come un modo per liberarsi del passato e abbracciare la modernità. Oggi quel processo si ripete, ma la differenza è che il centro ha ceduto alle città satellite il molo di spazio di liberazione. Ora è il centro a essere considerato un organismo in decomposizione.

Uno spot televisivo di Mena Garden City, un comprensorio privato di 9 ettari, mostra una villa all’italiana di Garden City (un quartiere del centro voluto dal chedivè) sollevata dalle gru e trasportata in volo nella sua nuova sede naturale nel deserto. Con una sottile allusione al vecchio stereotipo egiziano della contrapposizione tra il fellah (il contadino, che lasciando la campagna contribuisce alla crescita della popolazione del Cairo) e l’hadari (il cittadino), lo spot invita i ricchi a comprare il proprio destino di emancipazione dalla massa trasferendosi in un luogo più cosmopolita e sofisticato.
Visitando l’ufficio vendite di uno dei nuovi quartieri di lusso ho notato un libro di cinema aperto su una pagina dedicata a Audrey Hepburn. Mi ha fatto tornare in mente le parole di un cliente: “Chi costruisce le città satellite non vende solo case, ma anche uno stile di vita. Negli uffici vendite tutto è concepito per sottolineare il contrasto con il Cairo. Il messaggio è: ‘Tutto questo ora ti sembra lontano, ma se vivrai qui ti sembrerà una cosa normale”. Nella cittadella del Cairo del ventunesimo secolo, gli standard dell’opulenza si possono condensare in una borsetta per il trucco.

Questo tipo di pubblicità non serve solo ad attirare clienti, ma anche a legittimare l’idea delle città satellite. Chi sceglie divi- vere nei nuovi quartieri di lusso è accusato di abbandonare la comunità urbana d’origine per inseguire un interesse egoistico, uno splendido isolamento carico di cattivo gusto. La pubblicità cerca di ridisegnare l’immagine dei comprensori privati come avanguardie di un nuovo nahda umran(ya, il rinascimento urbano del Cairo voluto dal chedivè. “Un posto dove i bambini possono giocare in sicurezza, dove stringere amicizie durature con i vicini e dove far parte di una vera comunità”, è scritto sul bozzetto di Mivida, un comprensorio di ville da un miliardo di dollari della Emaar nel Nuovo Cairo. Tutti i costruttori con cui ho parlato hanno ribadito che le città satellite costituiscono un ritorno alla comunità, non una fuga. In questo modo l’intero progetto di urbanizzazione del deserto viene presentato non come una scelta egoistica dell’élite, ma come una missione nazionale di progresso per tutti gli egiziani. Un modo per riportare il paese a una presunta età dell’oro in cui possano rifiorire le “autentiche” tradizioni egiziane, dissipate dopo la rivoluzione del 1950. “Nei nuovi quartieri i ragazzi andranno in bicicletta e gli adulti incontreranno i vicini a passeggio: stiamo parlando di valori sociali da ripristinare”, dice Mohamed el Mikawi, il direttore generale di Festival City, un progetto immobiliare al Nuovo Cairo.
Ma sulla terrazza della Uptown di Emaar, dove il prato di un eliporto viene leggermente mosso dal vento e un poster mi informa che qui mi trovo “radicato in secoli di vita cosmopolita e sto sfruttando al massimo la modernità”, tutto sembra un enorme esercizio di illusionismo.