Il nuovo Cairo di Jack Shenker, The Guardian

Intorno alla capitale egiziana aumentano i quartieri residenziali con campi da golf e ville inespugnabili. Un’eredità dell’ex presidente Mubarak che mette a rischio la coesione sociale. - Alle sei del pomeriggio dell’11 febbraio la notizia della caduta del presidente Mubarak ha fatto irruzione tra la folla di piazza Tahrir. La piazza è esplosa e il centro del Cairo si è animato di tamburi. In quel momento striscioni e cartelli si sono fatti velocemente largo di fronte alle telecamere di tutto il mondo. Tra tanti slogan intelligenti, rabbiosi e trionfali ce n’era uno, in arabo, che balzava agli occhi: “Un chilo di carne costa 100 lire, ma un metro quadro di terra a Madinaty costa 50 centesimi”.

New Cairo

Per la maggior parte dei giornalisti che seguivano i festeggiamenti nella piazza centrale della capitale, queste parole non significavano niente. Ma per moltissimi egiziani vogliono dire tutto e rivelano il significato meno evidente di una rivoluzione che continua a scuotere questa regione. Lo striscione si riferiva alle città satellite, una valanga di colossali progetti di sviluppo urbano da diversi miliardi di dollari che stanno nascendo nel deserto intorno al Cairo. Su una delle terre più aride che si possano immaginare, spuntano campi da golf da 18 buche. Le gru usate per costruire gli uffici progettati da Zaha Hadid si affacciano su un nulla che si estende ininterrotto per centinaia di chilometri. L’abisso tra chi è ricco e chi non ha niente, spalancato a forza di tangenti, è espresso chiaramente da cemento e mattoni.

Per millequattrocento anni, la più grande metropoli dell’Africa e del Medio Oriente è cresciuta all’interno degli stessi angusti confini, formando uno degli spazi più densamente popolati della Terra. Negli ultimi dieci annj, all’ombra delle piramidi si sono ammassati venti milioni di persone - più degli abitanti di Libia, Libano e Giordania messi insieme — ostaggio di servizi pubblici sempre più carenti e private delle libertà politiche fondamentali. Il Cairo è chiamato dagli egiziani umm aldunya (madre del mondo) e nei secoli ha avuto un’enorme forza d’attrazione non solo sul resto dell’Egitto, ma anche su gran parte del mondo arabo. La città, inondata ogni giorno da nuovi migranti, nuove auto e nuovi edifici, con la sua inebriante anarchia dà l’impressione di tenersi insieme per miracolo.
Negli ultimi anni i confini fisici e psicologici del Cairo sono stati radicalmente ridisegnati, con profonde conseguenze politiche. In mezzo al deserto che circonda la capitale sono state innalzate delle colonne di cemento: sono l’inizio di un progetto il cui obiettivo è prendere il posto della stessa città che lo ha generato. Questa colata di cemento è opera dei più importanti imprenditori edili egiziani, sostenuti dal regimedi Mubarak, che ha venduto a un prezzo più basso di quello di mercato vaste aree di terreno pubblico. Il risultato è che oggi le città satellite deturpano il panorama del Sahara, rimodellando l’aspetto fisico della capitale e l’identità dei suoi cittadini.

Il nuovo Cairo I fautori del progetto delle città satellite considerano il deserto come un’opportunità per ricostruire la capitale da zero, nella speranza di liberarla dal traffico, dalla criminalità e dal caos, che secondo loro la stanno trascinando verso una decadenza irreversibile. Ma altri temono che da questo rimodellamento del Cairo molti saranno lasciati fuori, relegati dal lato sbagliato di un perimetro urbano che si snoda al ritmo della finanza straniera, delle ville di lusso e delle torridi guardia erette al di là di mura sempre più alte.
Negli anni e nei mesi che hanno portato alla rivoluzione, l’avidità degli squali della finanza egiziani ha fatto crescere la rabbia dell’opinione pubblica. Alcuni cittadini si sono rivolti ai tribunali per opporsi alla vendita dei terreni.

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Queste iniziative hanno risvegliato l’interesse della gente, alimentando l’opposizione popolare all’idea delle città satellite. Un avvocato di Madinaty (il più importante progetto di sviluppo urbano del deserto, e il primo attaccato dagli attivisti che denunciano la corruzione) alla fine dell’anno scorso aveva affermato che il movimento di resistenza contro i suoi clienti avrebbe “aperto le porte dell’inferno”. Tre mesi dopo, le proteste di piazza dilagavano in tutto il paese.
“Potete chiamarle città satellite, ma non sono più satelliti”, aveva detto Adel Naguib, ex vicepresidente dell’authority per le nuove comunità urbane del Cairo. “Ora sono diventate dei pianeti”. Ecco allora la storia di questi pianeti, e di come hanno contribuito a scatenare una rivoluzione.


Piramide di tartine

E' una giornata calda e polverosa, alla fine di aprile del 2010. Ahmed Seifgronda di sudore mentre cerca di far passare un motoscafo da corsa attraverso una porta. I suoi otto assistenti hanno provato inutilmente diverse angolature per mezz’ora e adesso, sfiniti, sembrano pericolosamente vicini a un ammutinamento. “Va bene, proviamo un’altra volta con la barca messa in questo modo”, ordina Ahmed ignorando gli sguardi di fuoco che gli lanciano i manovali. Dopo qualche urlo e un pauroso stridore metallico, la barca viene finalmente spinta dentro, e quasi subito si schianta su un’artistica piramide di tartine al salmone. Ahmed scuote la testa incredulo. “Basta, finiamola qui”, sospira.
Il motoscafo fa parte di uno stand della Wadi Degla Real Estate Development, una delle quaranta imprese edili che partecipano all’edizione del 2010 di Next Move, la più grande fiera immobiliare del paese. Qui la concorrenza è spietata e la maggior parte delle aziende passa la mattinata di apertura ad abbellire gli stand con qualcosa di speciale nella speranza di attirare l’attenzione dei visitatori.

Nello spazio allestito dalla Palm Hills Development c’è un sontuoso paesaggio di finto prato all’inglese con tanto di caffetteria Starbucks. Poco più avanti, lo stand dell’agenzia immobiliare Porto Cairo ospita un circo ambulante che comprende un prestigiatore, due trombettisti e una mascotte pelosa che somiglia a un ratto. La Wadi Degla, non contenta di aver offerto ai visitatori un motoscafo da corsa da ammirare mentre sfogliano le brochure patinate della società, ha anche ordinato una vera Ferrari. Dallo stand vicino, gli addetti del resort La Vista lanciano sguardi carichi d’invidia alla Ferrari e cominciano a pentirsi della loro trovata pubblicitaria: uno scialbo quartetto d’archi. Violoncellisti, automobili e caffè di benvenuto costano, ma per le imprese che partecipano a Next Move questi espedienti valgono la posta in gioco: una fetta del mastodontico mercato immobiliare egiziano, che oggi rappresenta 14 miliardi di dollari del pii del paese e che negli ultimi anni ha registrato tassi di crescita annui fino al 22 percento. Per capire da dove viene questa crescita basta dare un’occhiata alla pagina centrale della brochure della fiera: c’è una mappa dove sono segnati tutti i progetti di costruzione intrapresi dalle aziende presenti a Next Move. Tre sono al Cairo, mentre altri 64 sono nel deserto che circonda la capitale. Alcuni di questi progetti immobiliari sono talmente enormi da essere considerati vere metropoli. Tra questi anche Madinaty, a cui si riferiva il cartello di protesta a piazza Tahrir. Un comprensorio da tre miliardi di dollari che alla fine avrà ottantamila case e villette a schiera, oltre ad alberghi, scuole e ospedali.

Secondo i progetti, entro i prossimi cinque anni i due principali poli di urbanizzazione del deserto — Città del 6 ottobre, a ovest, e Il Nuovo Cairo, a est — ospiteranno ognuno fino a cinque milioni di persone. Così alla periferia della vecchia capitale nascerà un centro urbano grande il doppio di Parigi. Le stime del governo suggeriscono che nel 2030, quando gli abitanti del vecchio Cairo saranno più di trenta milioni, la metà di loro non vivrà nella capitale, ma in una città satellite. In qualunque direzione si guardi il deserto, il ritmo con cui procedono le costruzioni toglie il fiato. “Credo che nella sua vita non vedrà mai un’area urbana crescere così velocemente. Basta andare via due mesi e quando torni il paesaggio è irriconoscibile”, afferma un manager di una delle più importanti imprese edili del Nuovo Cairo.

C’è una bella differenza con l’inizio degli anni novanta, quando Il Nuovo Cairo era un piccolo insediamento a Katameya, abitato solo da poche persone trasferite lì dal governo dopo che le loro case erano state distrutte dal terremoto del 1992. È stato allora che Khaled e Tarek Abu Talib hanno comprato cento ettari di deserto e iranno annunciato di voler costruire un ampo da golf da 18 buche e un comprensono residenziale. La maggior parte della gente li ha presi per pazzi. Oggi il loro comprensorio è uno dei più esclusivi del paese. La terrazza con piscina e il circolo che profuma di sigari pregiati affacciano su una marea di gru che lavorano senza sosta. Il nome Katameya Heights - come quello di altri comprensori nei dintorni, dai nomi improbabili: Beverly Hills, Dreamland e Utopia — ormai rappresenta il massimo del lusso per l’alta società egiziana.


A ognuno il suo mezzo ettaro

Nel più grande paese del mondo arabo il 2 per cento dei cittadini vive con meno di due dollari al giorno, ma non si direbbe guardando i vialetti della città giocattolo di Katameya, dove le quote di ammissione a un circolo partono da 22mila dollari.
La spinta dell’élite del Cairo verso le dune di sabbia va avanti da quasi vent’anni, ma ultimamente i complessi residenziali vengono costruiti più velocemente. Mentre i primi quartieri, come Katameya Heights, erano concepiti per ricchi eccentrici, gli innumerevoli progetti immobiliari di oggi mirano a una fascia più ampia, per quanto privilegiata, di egiziani disposti a lasciare il Cairo. Chiedete a qualunque visitatore della fiera Next Move perché vuole trasferirsi fuori città e sentirete la stessa parola ripetuta più volte: zahma, che significa “traffico”, “confusione”. A favorire l’esplosione demografica del Cairo è stata la politica di Gamal Abdel Nasser che, dopo il colpo distato contro il dominio britannico nel 1952, ha distribuito circa mezzo ettaro di terreno agricolo a ogni nucleo familiare. Man mano che le famiglie crescevano i terreni venivano divisi tra i figli e davano rendimenti sempre più scarsi. Così moltissimi contadini hanno cominciato a migrare verso la capitale, popolando strade già sature: più auto, più edifici e più persone.

Gli edifici costruiti all’interno dei confini della città per ospitare i nuovi arrivati erano spesso fabbricati con materiale scadente. Inoltre i politici non hanno mai avviato un adeguamento delle infrastrutture, lasciando i servizi pubblici in una situazione critica. Il traffico è aumentato e le aree verdi sono talmente poche che per fare un picnic le famiglie hanno a disposizione solo gli squallidi prati accanto alle maggiori arterie cittadine. “Anni fa casa mia era in un bel posto, ma oggi fatico a riconoscerlo. L’intera città è stata trasformata in un’enorme baraccopoli”, mi spiega Anton Girgis, un tecnico delle telecomunicazioni che vive a Giza ed è venuto alla fiera in cerca di una casa fuori città.

L’imponente cittadella del Cairo, costruita nel dodicesimo secolo da Saladino per proteggere il suo impero dai crociati, oggi guarda dall’alto, con regale distacco, un mondo in cui anche l’ultima porzione di spazio residuo è stata spremuta dai suoi occupanti. Sotto di lei c’è la Città dei morti, alcuni chilometri quadrati di tombe dove oggi le salme condividono lo spazio con i vivi. Schiacciati in quest’area vivono cinque milioni di persone. I luoghi di riposo dei defunti sono stati attrezzati con antenne satellitari e le lapidi sono state trasformate in tavoli. Poco distante c’è la baraccopoli di Manshiyet Nasser, che si snoda intorno alle pendici della collina del Mokattam, dove nel 2008, per una frana, morirono più di cento persone.

Sopra la cittadella, in cima all’altura, sta prendendo forma una nuova fortezza. È stata costruita dal braccio egiziano della Emmar, la società di Dubai che ha costruito il Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo. Il suo progetto qui al Cairo si chiama Uptown e il lungo viale d’accesso al suo ufficio vendite è fiancheggiato da gigantografie di famiglie dalla pelle chiara che si divertono sull’erba, preparano barbecue e parcheggiano in garage la loro Mercedes. Ogni immagine è corredata da una singola parola: Upscale, Upmarket, Upbeat. Alle sue spalle, il nulla si spalanca all’orizzonte. Le società immobiliari che stanno creando le più esclusive città satellite del Cairo sfruttano da tempo l’immagine della capitale fatiscente. La retorica della fuga dal caos è un potente strumento di vendita. Ma fuga verso cosa? La sfida più ambiziosa che gli architetti delle nuove comunità urbane devono affrontare è far sembrare il deserto una zona ospitale e d’élite. Un luogo a cui aspirare e non più da disprezzare.


La presunta età dell’oro del Cairo

Per trovare la soluzione a questo problema basta scavare nel passato del Cairo. Alla fine dell’ottocento, il chedivè (viceré) d’Egitto Isma’il Pascià cominciò il progetto che avrebbe caratterizzato il suo regno: la costruzione da zero di quello che oggi è il centro del Cairo, l’inquieto cuore pulsante della città. Con gli ampi viali all’europea che partono a raggiera da piazze ornate da fontane, il Cairo del chedivè offriva a ricchi commercianti, intellettuali e politici non solo uno standard di vita più alto, ma anche una scissione simbolica dalla fatiscente città vecchia: i vicoli del Cairo islamico che ribollivano di umanità e disordine. I balconi e le logge del nuovo quartiere furono presentati come un modo per liberarsi del passato e abbracciare la modernità. Oggi quel processo si ripete, ma la differenza è che il centro ha ceduto alle città satellite il molo di spazio di liberazione. Ora è il centro a essere considerato un organismo in decomposizione.

Uno spot televisivo di Mena Garden City, un comprensorio privato di 9 ettari, mostra una villa all’italiana di Garden City (un quartiere del centro voluto dal chedivè) sollevata dalle gru e trasportata in volo nella sua nuova sede naturale nel deserto. Con una sottile allusione al vecchio stereotipo egiziano della contrapposizione tra il fellah (il contadino, che lasciando la campagna contribuisce alla crescita della popolazione del Cairo) e l’hadari (il cittadino), lo spot invita i ricchi a comprare il proprio destino di emancipazione dalla massa trasferendosi in un luogo più cosmopolita e sofisticato.
Visitando l’ufficio vendite di uno dei nuovi quartieri di lusso ho notato un libro di cinema aperto su una pagina dedicata a Audrey Hepburn. Mi ha fatto tornare in mente le parole di un cliente: “Chi costruisce le città satellite non vende solo case, ma anche uno stile di vita. Negli uffici vendite tutto è concepito per sottolineare il contrasto con il Cairo. Il messaggio è: ‘Tutto questo ora ti sembra lontano, ma se vivrai qui ti sembrerà una cosa normale”. Nella cittadella del Cairo del ventunesimo secolo, gli standard dell’opulenza si possono condensare in una borsetta per il trucco.

Questo tipo di pubblicità non serve solo ad attirare clienti, ma anche a legittimare l’idea delle città satellite. Chi sceglie divi- vere nei nuovi quartieri di lusso è accusato di abbandonare la comunità urbana d’origine per inseguire un interesse egoistico, uno splendido isolamento carico di cattivo gusto. La pubblicità cerca di ridisegnare l’immagine dei comprensori privati come avanguardie di un nuovo nahda umran(ya, il rinascimento urbano del Cairo voluto dal chedivè. “Un posto dove i bambini possono giocare in sicurezza, dove stringere amicizie durature con i vicini e dove far parte di una vera comunità”, è scritto sul bozzetto di Mivida, un comprensorio di ville da un miliardo di dollari della Emaar nel Nuovo Cairo. Tutti i costruttori con cui ho parlato hanno ribadito che le città satellite costituiscono un ritorno alla comunità, non una fuga. In questo modo l’intero progetto di urbanizzazione del deserto viene presentato non come una scelta egoistica dell’élite, ma come una missione nazionale di progresso per tutti gli egiziani. Un modo per riportare il paese a una presunta età dell’oro in cui possano rifiorire le “autentiche” tradizioni egiziane, dissipate dopo la rivoluzione del 1950. “Nei nuovi quartieri i ragazzi andranno in bicicletta e gli adulti incontreranno i vicini a passeggio: stiamo parlando di valori sociali da ripristinare”, dice Mohamed el Mikawi, il direttore generale di Festival City, un progetto immobiliare al Nuovo Cairo.
Ma sulla terrazza della Uptown di Emaar, dove il prato di un eliporto viene leggermente mosso dal vento e un poster mi informa che qui mi trovo “radicato in secoli di vita cosmopolita e sto sfruttando al massimo la modernità”, tutto sembra un enorme esercizio di illusionismo.


Il Cairo: nuove identità

I parallelismi storici sono tutti sbagliati. L’attuale campagna di sviluppo urbanistico è presentata dai suoi sostenitori come se fosse semplicemente l’ultima tappa dell’espansione nel deserto dopo l’indipendenza. Sia Nasser sia il suo successore Sadat, sostengono gli impresari edili, intrapresero progetti di costruzione legittimati dalla rivoluzione: zone industriali e quartieri operai che consentissero all’ Egitto di espandere il proprio spazio abitabile, trasformando regioni desolate in verdi pascoli per un paese indipendente. Ma questo concetto del pioniere del deserto che avanza eroicamente in una terra vergine si adatta molto poco all’abitante delle città satellite, che si è ritirato in un mondo di “frontiera” fatto di stanze da bagno con pavimento riscaldato disponibili in quattordici configurazioni diverse ed è guidato da speculatori diventati padroni di terreni pubblici per farne un uso chiaramente privato. Gli abitanti considerati abbastanza ricchi da meritare un posto nei comprensori privati del Cairo del futuro hanno comunque, anche se all’interno di parametri dettati dalle società immobiliari, l’opportunità di accedere a una nuova era di protagonismo e creatività, dove i muri materiali e le restrizioni sociali della città vecchia spariscono per consentire la nascita di nuove identità.

A giudicare dall’architettura delle ville in vendita a Uptown e altrove, queste nuove identità sono allo stesso tempo europee, mediterranee e islamiche (anche se quello che viene esibito come influsso musulmano appartiene più al mondo disneyano di Aladdin ricostruito nei parchi a tema occidentali che alle espressioni culturali più austere e autodisciplinate del populismo islamico contemporaneo). Ma resta il fatto che la maggior parte dei venti milioni di residenti del Cairo non arriverà mai a vedere l’interno di queste guarnigioni fortificate del nostro tempo. Oltre ai proprietari, le vedranno solo gli operai che le hanno costruite, i guardiani, le baby-sitter ole collaboratrici domestiche.
È questo abisso tra gli spazi occupati dai ricchi e quelli abitati dai poveri che preoccupa molti studiosi. Che conseguenze potrà avere l’idea delle città satellite? La società egiziana è sempre stata caratterizzata dalla diseguaglianza, ma prima i due estremi si mescolavano insieme nell’anarchico contenitore urbano del Cairo. “Perché un sistema sociale possa godere di buona salute, le diverse classi che lo compongono devono vivere in simbiosi. Ma qui c’è stata una rottura della coesione sociale che è andata di pari passo con i cambiamenti nell’uso della terra determinati dalle città satellite. I nuovi insediamenti stanno aumentando il divario tra ricchi e poveri, e questo rischia di avere effetti molto pericolosi sulla società egiziana”, afferma il professor Ahmed Okasha, psichiatra egiziano ed ex presidente della World psychiatric association.

Al secondo piano di una villa in costruzione in un comprensorio del Nuovo Cairo chiamato La Reve, incontro Mohammed Sayed Mohammed, un operaio che dirige una squadra di sette manovali. Sono tutti suoi parenti e provengono dalla città di Sohag, nel sud dell’Egitto. Gli chiedo cosa sa dei futuri compratori di questa casa. “Noi costruiamo le ville e ce ne andiamo”, spiega Mohammed, che riceve i dollari per metro quadro di costruzione. Questi soldi deve dividerli con i suoi aiutanti. “Non ho idea di chi ci vivrà, probabilmente qualcuno più in alto di me. Quando avrò finito questa villa non credo che potrò rivederla. Per questo chi la compra paga così tanto, per stare lontano dal popolo”. Poi si sciacqua la faccia e invita i suoi cugini che lavorano con lui a fare una pausa. “Le persone che verranno a vivere qui vogliono starsene in pace. Tutti desiderano un pezzetto di mondo tutto per loro”.
Mohammed si sposa tra un mese. Oggi vive qui a La Reve, ma se lui e la moglie dovessero trasferirsi al Cairo, una possibilità concreta considerando le scarse opportunità di lavoro altrove, finiranno in un ashwai’yat, una delle baraccopoli che oggi ospitano il 60 per cento della popolazione cittadina. Se saranno più fortunati andranno in un quartiere del centro abbandonato dai ricchi. In una città da cui gli abitantipiù ricchi, colti e potenti se ne vanno cosa resterà? Okasha disegna un quadro di abbandono politico, dove lo stato è assente perché chi è abbastanza ricco da farsi sentire non spinge più le istituzioni a prendere decisioni nell’interesse della comunità. “Non ci saranno servizi né infrastrutture, solo povertà e sovraffollamento. Mancheranno scuole, ospedali e fognature. In una città simile la frustrazione cresce e provoca seri problemi psichici, il peggiore è il senso di non appartenenza, di indifferenza. Quando ti rendi conto che lo stato non ti dà una casa e non provvede ai bisogni fondamentali, non appartieni più allo stato. Appartieni a chi ti offre queste cose, ed è qui che entrano in gioco i fondamentalisti. Si sta sfaldando anche il minimo senso di attaccamento alla nazione”.

Il boom delle città satellite e la conseguente espansione delle ashwai’yat sono due facce della stessa medaglia: i due spazi non potrebbero essere più diversi, eppure hanno in comune l’assenza del governo centrale, una tendenza all’autogestione e una riformulazione dell’identità sociale. Nelle aree più povere, le vecchie reti di parentela trapiantate dalla campagna lavorano accanto a organizzazioni religiose come i Fratelli musulmani, per aiutare gli abitanti a soddisfare i bisogni della vita quotidiana. Per i ricchi è in vendita un sistema diverso. In molte nuove aree urbane nel deserto ci sono delle forme di democrazia privatizzata: i residenti votano per il controllo e la gestione degli spazi condivisi e dei servizi domestici. In un paese che, dopo avere abbattuto una dittatura trentennale, combatte per una reale democrazia, le ripercussioni politiche della ritirata dell’élite in questi bastioni di libertà limitata potrebbero essere gravi. Il vecchio Cairo - da una parte il centro, dove le proteste per la democrazia sono state regolarmente represse dalla polizia antisommossa, e dall’altra i vicoli degli ashwai’yat, dove negli ultimi anni sono scoppiate violente rivolte contro le forze di sicurezza — è l’arena in cui si giocano oggi le sfide allo status quo politico.
Okasha non ha dubbi sugli effetti psicologici di questa separazione: “Il nostro paese ha bisogno di un cambiamento genera le Un cambiamento impossibile se il 20 per cento dei ricchi non sa cosa prova l’8o per cento del resto della popolazione. L’isolamento porta alla disumanizzazione e rischiamo di diventare individui ottusi, simili ad automi”. Eric Denis, del centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi, esperto di Egitto, è ancora più duro: “Il modello politico della zona residenziale privata punta a costituire delle unità autonome in cui è possibile vivere in una democrazia partecipativa anche se nel paese manca una democrazia sostanziale”.

Città satelliti del Cairo - Prati riservati

Nel maggio del 1997 il presidente Hosni Mubarak inaugurò un campo da golf in diretta sul canale televisivo Channel One, definendolo un polmone verde per il popolo del Cairo. Quasi nessuno degli spettatori ha mai avuto l’occasione di respirare l’aria pulita del campo da golf. I pochi che se lo possono permettere fanno parte di una minoranza benestante trincerata nei discorsi sui pericoli urbani della vecchia capitale in rovina, un gruppo di ricchi e potenti in cerca di verdi pascoli dove rinchiudere i loro vantaggi economici e politici a spese della maggioranza abbandonata a se stessa. “I complessi residenziali autorizzano le élite che ci vivono a continuare la marcia forzata per una liberalizzazione economica che favorisce gli oligopoli e non ridistribuisce la ricchezza. Allo stesso tempo in queste cittadelle le élite proteggono se stesse dagli effetti nocivi e dai rischi di questo processo”, spiega Denis. Ma in definitiva, continua, i muri costruiti dalle città satellite saranno la causa del loro fallimento. Attaccando la coesione sociale in nome del progresso, alla fine i centri residenziali produrranno, inevitabilmente, proprio i pericoli che dovrebbero scongiurare. La nuova sede dell’università americana del Cairo, la migliore istituzione formativa del paese per i fortunati che possono permettersela, si trova nel deserto. Lungo la strada per andarci, uno scavatore solleva il suo braccio meccanico verso il cielo. Siamo a Palm Hills Village, un nuovo quartiere residenziale del Nuovo Cairo che avrà un centro commerciale a tre piani con il tetto scorrevole in vetro. Come Madinaty, Palm Hills Village deve affrontare in tribunale delle dispute sull’acquisizione dei terreni, e la contrattazione delle azioni della società è stata sospesa. Dalla gru, i lunghi fili di acciaio Ezz — prodotti da Ahmed Ezz, ex parlamentare del partito al governo, oggi in prigione — sembrano serpenti dalla pelle argentata che si dibattono al sole, un frammento di una massa di rottami edilizi che si allunga sottilmente nell’etere. Oltre l’università, altri frammenti indistinti sono stati strappati alla realtà e buttati alla rinfusa nella sabbia, lontani l’uno dall’altro: tre strutture concentriche di una chiesa costruita a metà, una fila di lampioni argentati ancora avvolti nell’involucro di plastica, una palma innaturalmente dritta che è in realtà un’antenna per telefoni cellulari. Con i pochi edifici che lo trafiggono, il cielo da queste parti ha sempre una sconcertante epicità. A volte sembra di essere arrivati alla fine del mondo.
Intorno alla gru ci sono operai sui tetti che fumano e ascoltano Umm Kalthoum dalle radioline. Oppure bevono il tè o pregano inginocchiati sui sacchi di cemento. Con un’ideale zoomata in avanti, sembra di essere in un qualunque quartiere del Cairo. Il futuro di questa metropoli, così spesso rappresentata come un luogo statico, un campo di mummie, ora è messo in discussione non solo dai muri, dai cancelli e dai posti di guardia, ma anche da chi cerca di fuggire dai suoi confini.

I ricchi abbandonano il centro, e i suoi edifici cadenti sono comprati per quattro soldi da una società immobiliare che guarda ai prossimi quaranta o cinquant’anni, quando - così spera - la reclusione suburbana delle città satellite passerà di moda e l’establishment egiziano tornerà precipitosamente in centro. “I figli di chi va via di solito ritornano: è un ciclo che si può vedere ovunque, a Istanbul, Londra, New York”, dice El Mikawi. L’idea che ci sia un ritmo naturale nell’espansione urbana del Cairo — un ritmo nel quale le città satellite giocano un ruolo vitale - è condivisa da molti imprenditori edili. Appaltando i suoi spazi urbani a società private che promettono di recintare e selezionare l’accesso a terreni che una volta erano aperti a tutti, lo stato egiziano sta saltando su un carro globale che negli ultimi anni ha preso sempre maggiore slancio. Quella che alcuni studiosi hanno chiamato “l’architettura della paura” è nata negli Stati Uniti e sta rimodellando quasi tutte le città del mondo, da Città del Capo, in Sudafrica, a Chongqing, in Cina. Anna Minton, autrice di Ground control, afferma che anche in Gran Bretagna “ambienti ‘difendibili’ altamente controllati, sorvegliati dalla tecnologia e progettati per attirare certe persone e allontanarne altre”, sono diventati il modello per i nuovi progetti di urbanizzazione del territorio.
“Il Cairo in cui siamo cresciuti è morto, tutti i nostri coetanei vogliono andare nelle nuove comunità”, mi ha detto una coppia di sposi ventenni alla fiera Next Move. Forte dell’approvazione dei giovani delle élite, l’adesione del Cairo alla tendenza internazionale di dividere con un muro il proprio futuro urbano - segnato soprattutto dalla bomba a orologeria della crescita demografica - sembra un fatto compiuto.
Eppure l’ascesa delle città satellite non è un destino prestabilito. Dopo la caduta di Mubarak, due ex ministri per la casa e alcuni architetti delle città satellite sono stati arrestati con l’accusa di corruzione. Ma non sono solo le sfide legali a ostacolare le città satellite nell’Egitto postrivoluzionario. Guidando su un’autostrada deserta per un’ultima visita al Nuovo Cairo sono rimasto colpito dalla trascuratezza dello spazio intorno a me: lo squallore dei siti in costruzione, i crateri aperti sulla strada, l’incurante abbandono di tubazioni, cavi telefonici, segnali stradali sparpagliati lungo la strada.
Il vecchio Cairo riesce ancora a tenere insieme persone ed edifici, come un ecosistema. Dall’altra parte c’è il Nuovo Cairo, l’esito pasticciato di un esperimento di isole dell’alta società, slegate l’una dall’altra, anche dalla città che le ha generate. È un mondo di finestrini chiusi, come a Los Angeles. Qui non si vedrà mai qualcuno camminare, a parte qualche cane randagio. È un mondo sterile e artificiale, in un paese che sta finalmente cominciando a chiedere a gran voce un cambiamento politico e sociale.

Forse il desiderio di starsene per conto proprio segnerà il trionfo delle città satellite, ma ora — su quest’autostrada, in questo tramonto di un tardo pomeriggio primaverile — ho l’impressione che la voglia di cambiamento segnerà la loro rovina.