La Tavoletta della Caccia tanto più differisce dal frammento del Cairo, detto del paese di Tjehnu, in quanto i Libi, ammesso che siano tali, non vi sono rappresentati come nemici sconfitti, ma come uomini piacevolmente occupati nel diporto della caccia. H. Ranke” assegna a questa tavoletta una data molto antica basandosi sulla libertà della composizione dove i personaggi sono disposti con una certa confusione, contrariamente all’uso invalso più tardi di ordinarli in linee orizzontali, come si vede nel frammento del Cairo e nella Tavoletta di Narmer.

La tavoletta di Narmer

È forse più convincente l’argomento addotto da Ranke per dimostrare l’origine deltica della tavoletta, fondato in parte sui motivi già esposti e in parte sugli stendardi che tre dei cacciatori tengono in mano. Pare ch’essi rappresentino rispettivamente i simboli di «Occidente» «Oriente». Kurt Sethe, studioso sempre geniale, ha trovato ottime prove per dimostrare che in origine essi simboleggiavano i due lati opposti del delta. Ma il significato complessivo della scena di caccia rimane oscuro, essendo impossibile accettare l’audace ipotesi di Ranke, secondo il quale le fiere del delta erano diventate un pericolo per gli abitanti, per cui Occidente e Oriente avevano unito le proprie forze allo scopo di por fine alle loro devastazioni.

L’accenno agli stendardi della Tavoletta della Caccia fa ricordare che non si è ancora trovato una spiegazione per quelli che si vedono sulle navi dei vasi Gerzeani. Newberry li raccolse e cercò di dimostrare che la maggior parte per lo meno costituivano le insegne dei nomi o province del delta. Non c’è dubbio che esse corrispondano alle nostre bandiere nazionali e che indicassero le varie comunità proprietarie delle imbarcazioni. Ma i tentativi d’identificazione del Newberry” sono per lo più errati e ancora ignoriamo a quali particolari località le insegne si riferissero. Molto meno enigmatici sono gli stendardi analoghi riprodotti sopra una delle tavolette decorative in nostro possesso “, la cui parte superiore è occupata da un « possente toro » che trafigge a morte un uomo supino, del tipo sopra definito « libico»; il toro rappresenta il re dell’Alto o del Basso Egitto o di entrambi, dato che proprio questo epiteto è sempre attribuito al monarca regnante. Sotto, indubbiamente stretta intorno alla figura in parte mancante di un prigioniero, è una corda afferrata da mani che sporgono da cinque stendardi del tipo trovato in seguito come insegna dei nomi; il più facilmente riconoscibile è lo stendardo del nomo di Akhmim, nono dell’Alto Egitto. Il significato della tavoletta è reso in tal modo evidente: essa ricorda il massacro o la cattura di un avversario libico o del Basso Egitto da parte di un capotribù dell’Alto Egitto che guida una coalizione di varie province.

Quasi tutte le tavolette con scene guerresche sono consimili, e la cosa più notevole è ch’esse rappresentano in effetti guerre fratricide, mentre non vi è traccia di scontri con invasori provenienti da oriente, tranne forse in un caso, e cioè nella famosa impugnatura di coltello trovata nel Gebel el-Harak e ora al Louvre. Questo oggetto in avorio reca su di un lato una scena di caccia e una battaglia sul lato opposto. Nella parte superiore del primo è ritratto un personaggio in lunga veste ritto tra due leoni, da lui, a quanto pare, addomesticati. I guerrieri sull’altro lato, armati di semplici bastoni, sono simili a quelli delle tavolette, ma sotto di loro sono raffigurate due file di navi separate da corpi di soldati uccisi, e le imbarcazioni della fila superiore hanno la prua e la poppa verticali e gli alberi sormontati da mezzelune tipici dei vascelli mesopotamici di periodo arcaico. L’eroica figura in posa tra i due leoni, secondo uno stile prettamente sumerico, veste costume e turbante di antica divinità babilonese. Si deve a H. Frankfort (le cui ricerche sui rapporti fra l’Egitto e questi popoli stranieri integrano in modo ammirevole quelle condotte da altri studiosi) un’utile tabella dei punti di contatto fra le due civiltà.

Egli conviene che la fase babilonese in cui le somiglianze raggiunsero l’apice è il cosiddetto periodo di Jamdat Nasr, che corrisponde approssimativamente all’inizio della I dinastia egizia. Fu allora che la scrittura geroglifica fece la sua prima comparsa in Egitto, sebbene rintracciabile in Mesopotamia qualche tempo più addietro. Le analogie sono incontestabili e tali da apparire un prodotto naturale del suolo babilonese, ma estraneo allo spirito e alla tradizione dell’Egitto, dal quale in effetti scomparve alcuni secoli dopo. Le grandi tombe di mattoni con cinta ad aggetti e rientranze (p. 369, fig. i8) appartenenti alle prime tre dinastie hanno il loro prototipo in Mesopotamia, e così pure i sigilli cilindrici, la cui comparsa deve esser fissata in una data molto anteriore alla I dinastia. Gli animali compositi, grifoni alati e felini con il collo di serpente, non hanno carattere egizio e s’incontrano quasi esclusivamente nelle tavolette e nelle impugnature di coltello. I colli intrecciati che si vedono nella Tavoletta di Nacrmer, e qualche altro oggetto, sono decisamente mesopotamici nella concezione, ma egizi nell’esecuzione; e così pure i gruppi contrapposti, come le giraffe di un’altra tavoletta e i leoni del coltello di Gebel el-Harak.

Come spiegare storicamente questi influssi mesopotamici? possibile ritenerli semplicemente il seguito di una pressione forse già iniziata nel periodo Amratiano e poi acceleratasi e ingigantita? Non intendiamo qui discutere i precoci rapporti che E. Baumgartel con altri ricercatori trova tra l’arte fittile iranica e quella dei contemporanei periodi predinastici egizi, ma ci sia lecito osservare che solo un’infiltrazione dell’arte mesopotamica in Egitto può spiegare l’introduzione, alle soglie della I dinastia, delle sorprendenti novità architettoniche e artistiche cui abbiamo accennato. Rapporti commerciali indiretti non bastano evidentemente a spiegarle, mentre d’altro canto pare azzardato sostenere l’ipotesi di un’invasione vera e propria. Ammettiamo francamente la nostra ignoranza in materia e non tentiamo di erigerci a giudici fra i sostenitori della via d’accesso dal Mar Rosso attraverso lo Wadi Hammamat e la città di Copto e i fautori dell’itinerario settentrionale dalla Palestina. Ci sia solo permesso di esprimere l’opinione che la provata influenza mesopotamica doveva ampiamente bastare a dar l’avvio a quel rapido progresso che diede origine in Egitto a una civiltà altamente individualizzata, dalle cui forme non si allontanò mai di molto nei secoli seguenti.

Riesaminando il periodo predinastico nel suo complesso, ci troviamo gravemente ostacolati dall’incapacità di determinarne la durata. Fu appunto questa incapacità a spinger Petrie a escogitare il suo sistema del « Sequence Dating ». Ciò non di meno, sia lui che gli altri studiosi, non hanno potuto astenersi dal far congetture in proposito. La durata massima è forse quella proposta dallo stesso Petrie ‘‘, che situò i resti del Faiyum nel 9000 a. C., i Badariani nel 7471, e Méns nel 4326 — abbiamo già esposto i nostri motivi per rifiutare quest’ultima ipotesi. Il grande archeologo G. Reisner cade nell’estremo opposto con un calcolo di mille anni per l’intero periodo predinastico. L’argomento è importante perché solleva il problema del genere di vita possibile nei diversi stadi. Se il deserto circostante il Nilo era ancora bagnato da forti piogge, allora è forse probabile che nel periodo Neolitico, fino alla fase Tasiana, gli abitanti preferissero gli altipiani alla valle del Nilo per coltivare i cereali che riuscivano a produrre. Un altro problema riguarda la valle stessa.

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Quanto tempo ci volle per regolare gli effetti dell’inondazione in modo da trasformare una giungla paludosa in fertili campi di grano? Di una cosa si può esser certi, e cioè che resteremmo assai delusi se immaginassimo che nell’età predinastica la valle presentasse più o meno lo stesso aspetto di oggi. Essa era senza dubbio molto più simile all’attuale Alto Nilo sudanese, con tratti paludosi coperti di fitti papiri infestati di coccodrilli, e rifugio di animali selvatici d’ogni specie. Con l’introduzione dei sistemi di drenaggio le terre coltivabili aumentarono e gli stagni retrocedettero fino ai margini del deserto. Anche la fauna poco a poco si spostò verso il Sud, insieme al papiro e al loto. Ma purtroppo non abbiamo a nostra disposizione i mezzi per seguire passo passo questa evoluzione.

Alan Gardiner - La Civiltà Egizia