Con il periodo Gerzeano sopravviene un grosso mutamento, e anche questa volta la trasformazione più notevole è nell’arte fittile. Al vasellame a linee bianche incrociate si sostituisce una varietà bruno-giallognola decorata in rosso con linee a zigzag o a spirale, oppure con disegni di imbarcazioni a più remi, ciascuna con due tughe e aste per bandiere o stendardi, accompagnate o no da file di fenicotteri, e talvolta da figurine di uomini e animali. In tutta la storia dell’arte fittile non esiste uno stile più inconfondibile o più caratteristico di un particolare periodo e di un dato popoio. A Teracompoli, F. W. Green scoprì una tomba con pitture parietali chiaramente dello stesso tipo’. I vasi a manici ondulati, ai quali Petrie attribuf tanta importanza, incominciano nel periodo Amratiano, numero S.D. 35, ma la maggior parte appartiene al Gerzeano. I recipienti in pietra di questo periodo si valgono di materiali anche più appariscenti come la diorite e il serpentino. Una differenza tra lo stadio Amratiano e il Gerzeano si nota anche nelle teste delle mazze: durante il primo sono foggiate a disco con bordi molto affilati, nel secondo sono a forma di pera, come dimostrano i rispettivi geroglifici T e T. Un’evoluzione di grande importanza si ha nel crescente impiego del rame, non solo per armi e utensili, ma anche per oggetti da toeletta. Resti Badariani, Amratiani e Gerzeani in strati sovrapposti sono stati trovati ad Hammamiya presso Badari, per cui non vi è dubbio che questi termini si riferiscano a periodi cronologici. Gli stessi termini servono però a indicare anche l’area di diffusione. Esempi di tutti e tre gli stadi sono presenti nella Bassa Nubia e anche più a sud, per quanto potrebbe trattarsi di prodotti ritardatari, mentre l’Egitto vero e proprio entrava in fasi più avanzate. Oltre che nella Nubia sono stati trovati resti Badariani nel tratto fra leracompoli a sud e Mahasna a nord di Abido, e Amratiani fra Armant e Naga ed-Deir sulla sponda orientale di fronte a Mahasna. Lo stile Gerzeano ha un’area di diffusione più vasta, essendo il villaggio di Gerza situato a più di trecento chilometri a valle lungo il fiume, nei pressi di Maidum. Sarebbe arrischiato sostenere che a ogni dato periodo corrisponde una completa uniformità di stile in tutto l’Alto Egitto, anche se questa opinione non è contraddetta da notevoli differenze locali. D’altro canto pare evidente qualche ragione di contrapporre la cultura predinastica dell’Alto Egitto a quella del Basso Egitto, rappresentato da Merimda, il Faiyum, Macadi presso il Cairo ed EI-O- mari vicino a Helwan, tanto più che vi si può discernere una differenza di razza, anche se non del tutto confermata dalle testimonianze antropologiche ricavate da Merimda. Tuttavia gli esperti ritengono di poter affermare che la regione era abitata cia una popolazione di statura piuttosto alta e con una capacità cranica assai superiore a quella delle popolazioni meridionali. Questi ultimi erano dolicocefali e possedevano una statura inferiore alla media con caratteristiche spesso negroidi. Comunque si giudichi la popolazione settentrionale, gli abitanti dell’Alto Egitto si possono definire di ceppo essenzialmente africano, carattere sempre conservato malgrado le influenze straniere che di volta in volta imprimevano il loro marchio.

Egitto preistorico

Per tornare agli aspetti cronologici dei tre stadi, è da deplorarsi l’uso tuttora in voga presso certi archeologi di espressioni come « civiltà amratiana », « civiltà gerzeana » e simili che parrebbero sottintendere radicali fratture nell’evoluzione come quelle intervenute fra il periodo egizio-romano e il periodo egizio-islamico. Per quanto notevole possa apparire il mutamento da uno stadio all’altro, si può affermare risolutamente la continuità dell’evoluzione, pur senza negare che ogni importante progresso possa esser stato stimolato da impulsi esterni. Per dimostrare questa continuità addurremo due prove, una generica e l’altra specifica. Durante tutto il periodo le tombe erano costituite da strette fosse di forma ovale o rettangolare, dove i morti giacevano rannicchiati sul fianco sinistro con le ginocchia all’altezza della faccia e con la testa più spesso rivolta a sud che a nord; col defunto venivano sepolti i suoi beni più preziosi, insieme agli utensili e agli attrezzi più rozzi che gli avrebbero permesso di condurre nell’al di là la vita consueta. L’essenziale uniformità di queste disposizioni funerarie non è contraddetta dalle varianti introdotte di tanto in tanto, come per esempio quando le stuoie usate dai Badariani per rivestire le tombe furono sostituite da assi di legno che ne coprivano i lati e la copertura, innovazione che doveva a suo tempo portare al sarcofago dell’età dinastica. Ma, quando già da secoli la mummificazione e l’inumazione in sontuose tombe di pietra era divenuta la regola per i ricchi defunti, si continuava a seppellire i poveri nell’antica posizione rannicchiata.

Una prova ancor più eloquente della continuità culturale è data dalle sottili tavolette di pietra usate per macinare la malachite per il trucco o per protezione magica degli occhi. Tavolette del genere s’incontrano già non solo a Deir Tasa, ma anche a Merimda ancora nelle forme più semplici, rettangolari o ellittiche, e non ancora tagliate nell’ardesia verdastra che diverrà abituale in seguito. Dal periodo Amratiano provengono i primi esemplari ovoidali o a forma di losanga che in seguito dovevano avere un’evoluzione tanto splendida. A queste tavolette se ne affiancano altre dalle forme più svariate e fantasiose, imitanti pesci o tartarughe o quadrupedi, come l’ippopotamo e il cervo. Di particolare interesse sono le tavolette simmetricamente ornate ai due angoli superiori con teste d’uccello, perché questa simmetria costituirà più tardi una delle prove più evidenti di influenze mesopotamiche. Verso la fine del periodo Gerzeano compaiono per la prima volta decorazioni a bassorilievo, che per ora non occupano che una piccola parte della superficie della tavoletta; i disegni sono simbolici e ogni tentativo d’interpretazione si è dimostrato vano. Evidentemente ci troviamo di fronte alle antenate delle tavolette stupendamente scolpite, solo tredici delle quali, alcune in frammenti, sono giunte fino a noi’. La bravura artistica in esse sfoggiata, i rilievi che ne coprono l’intera superficie, e anche le dimensioni delle più grandi, fanno ritenere che fossero oggetti votivi non destinati all’uso. Allorché vennero alla luce i primi esemplari si dubitò addirittura che fossero opera di artefici egizi, ma questi dubbi furono dissipati dalla scoperta (nel 1897) di due altri oggetti consimili nel tempio di leracompoli; di uno di questi, la celebre Tavoletta di Narmer , parleremo in seguito. Si è ora appurato che queste tavolette commemorative appartengono alla fine dell’epoca predinastica e in qualche caso forse al periodo protodinastico; esse presentano infatti un’importante novità costituita da scarsi, ma inconfondibili, esempi di scrittura geroglifica. Fra questi affascinanti esemplari predinastici tardi. Sul recto compaiono sette rettangoli con contrafforti che evidentemente rappresentano città conquistate in cui esseri simbolici si aprono il cammino per mezzo di picche. I geroglifici, per lo più singoli, all’interno dei rettangoli erano certo destinati a rappresentare il nome delle città. E stata avanzata l’ipotesi che negli attaccanti (falco, leone, scorpione, ecc.) si debba riconoscere, sotto aspetti diversi, un unico Capotribù vittorioso “, ma è assai più probabile ch’essi rappresentino province diverse coalizzate in una guerra comune. Da notarsi in modo particolare i due uccelli-stendardo che demoliscono la fortezza nell’angolo sinistro inferiore e che potrebbero rappresentare il futuro nomo di Copto, il quinto dell’Alto Egitto. Sul rovescio si vedono buoi, asini e arieti che camminano pacifici verso destra, ciascuna specie disposta in fila in un registro distinto, mentre in basso sono raffigurati alberi che P. E. Newberry (fieramente avversato da L. Keimer)” suppone siano ulivi; di fianco agli alberi è il monogramma , che Sethe giustamente interpreta come Tjehnu , il paese dei Libi detti Tjehnyu (p. 35). Non occorre molto acume per capire che il bestiame è bottino di guerra e che gli alberi producono il tanto pregiato olio del Tjehnu.

Questa interpretazione sembra convalidata (seppure con un’importante differenza) dalla Tavoletta detta della Caccia, ritrovata pressoché intatta . Essa rappresenta numerosi uomini armati di archi, spiedi, boomerang e lacci che combattono vittoriosamente le fiere del deserto; due leoni sono stati trafitti dalle frecce, uno stambecco è preso al laccio per le corna, altri animali, fra cui uno struzzo e una lepre del deserto, sono in precipitosa fuga. Ma l’interesse principale, oltre a due misteriosi simboli geroglifici, sta nell’acconciatura dei personaggi, barbuti come i nemici vinti della Tavoletta di Narmer con piume nei capelli e code attaccate ai gonnellini. Le code sono un ornamento caratteristico dei faraoni, e non se ne conoscono altri esempi se non sui capitribù libici sconfitti, scolpiti sopra un muro che conduce al tempio del faraone Saburéc (V dinastia) 4; questi capitribù, che portano l’astuccio penico, hanno un curioso ciuff etto di capelli ritto sulla fronte che richiama in modo irresistibile l’« ureo» (cobra) dei faraoni. Potrebbe darsi che i re predinastici del Basso Egitto, o del delta occidentale, fossero in realtà di stirpe libica, e che più tardi i sovrani dei Due Paesi unificati abbiano ereditato da loro la coda e l’ureo, due particolari delle insegne regali davvero sorprendenti. Esistono però altre possibilità, per esempio che i capi libici del tempio di Sahuré imitassero i re egizi o che questi singolari accessori dell’abbigliamento non fossero limitati alla Libia e al Basso Egitto, ma diffusi in altre regioni africane. La parola egizia per indicare i Nubiani, e i guerrieri in genere, ha come determinativo la figura di un uomo con una piuma sul capo I, e più sopra abbiamo richiamato l’attenzione sulle statuine Amratiane dell’Alto Egitto che portano l’astuccio penico. Tutto ciò che pertanto è lecito concludere a proposito dell’abbigliamento è che esso, pur non costituendo necessariamente un distintivo razziale, dimostra l’esistenza di una affinità fra i Libi, gli Egizi e i Nubiani, la quale conferma quanto abbiamo detto delle prime culture della valle del Nilo, da noi definite essenzialmente africane.