Il Crepuscolo del mondo egizio – Dall'XI secolo a.C. Al IV secolo d.C. di Jean Leclant
Troppo spesso si fa arrestare la storia dell'arte egizia alla fine del Nuovo Regno; poche righe e non certo lusinghiere bastano per chiosare una lunga decadenza – lunga indubbiamente, poiché si tratta di circa un millennio e mezzo; decadenza certo no, perché vi compaiono numerosi rinnovamenti e vi si creano parecchi autentici capolavori. Gli enormi templi delle epoche tolemaica e romana levano ancor oggi le loro sorprendenti masse, incise di innumerevoli testi che costituiscono inesauribili fonti documentarie sulla religione e il pensiero faraonici; statue, pezzi di oreficeria – alcuni prestigiosi – attestano il sussistere delle qualità tradizionali degli artisti e degli artigiani egizi.
La Bassa Epoca soffre soprattutto di essere mal conosciuta: molti documenti non sono ancora pubblicati o lo sono in maniera incompleta; non ci si è ancora applicati in modo sufficiente ai problemi storci; gli storici dell'arte non hanno tentato di analizzare e di comprendere a fondo i caratteri dei diversi periodi, molto dissimili fra loro, che la costituiscono. Il trionfante Egitto imperiale è ormai finito; nonostante alcuni tentativi infruttuosi, i faraoni non possono rimettere piede in quei territori che durante il Nuovo Regno avevano dominato in Asia e in Africa, tuttavia l'influenza culturale resta considerevole, sia sull'arte fenicia sia su quella della Nubia. Si è lontani anche dallo splendido isolamento dell'Antico Regno: pur costretto a ripiegarsi su se stesso, l'Egitto è nel vortice della grande politica del Vicino Oriente e troppo spesso subisce le vicissitudini delle invasioni. Ed è un fatto tanto più stupefacente che, nonostante veri periodi di impoverimento, esso abbia ancora dato prova di simili lampi di fortuna e di un tale ascendente.
{multithumb thumb_width=110 thumb_height=110 thumb_proportions=crop num_cols=4 } La storia che la valle del Nilo conosce in questi tempi è molto complessa e ricca di numerosi colpi di scena. Dopo la straordinaria durata delle sue epoche più fulgide, i Regni (l'Antico Regno, il Medio e il Nuovo Regno, tra i quali vanno purtroppo citate le enormi zone d'ombra dei Periodi Intermedi), l'evoluzione degli ultimi tempi può apparire caotica, eterogenea, tributaria di diversissime influenze esterne. Nonostante ciò essa resta eminentemente egizia, sottomessa nella sua interezza alla istituzione faraonica. Ne risulta una profonda unità di ispirazione, che non riuscì però a far ignorare la disparità di alcune opere in cui prevale l'impronta dell'esterno.
Il millennio e mezzo durante il quale l'Egitto vive in un lento crepuscolo è ricchissimo di eventi importanti, anche se talvolta contraddittori e imprevisti, e per lo più misconosciuti. È necessario perciò presentarne una rapida panoramica indispensabile alla comprensione di forme nelle quali si intrecciano correnti diverse e tanto numerose, “slittamenti, innovazioni, imitazioni e ritorni al passato”.
Dopo che l'ultimo Ramesside, Ramses XI, scomparve con discrezione dalla scena della storia e dopo che il gran sacerdote tebano di Amon, Herihor, usurpando il trono, divenne faraone (intorno al 1070), l'Egitto cominciò a frammentarsi. Nel Nord, con Smendes, compare uno stato indipendente. I tre secoli oscuri che allora si aprono costituiscono un Terzo Periodo Intermedio, eco forse dei gravi sconvolgimenti che hanno contraddistinto, nel complesso del Mediterraneo orientale, la fine del Bronzo recente e 1'inizio dell'Età del Ferro.
Sotto la XXI dinastia (1070-945 circa), i re di Tanis, nel Nord-Est del Delta, si proclamano talvolta “primi profeti di Amon” divenendo così i concorrenti dei grandi sacerdoti tebani che, a loro volta, spesso circondano il proprio nome col cartiglio faraonico. A Tanis, con blocchi di pietra di ogni dimensione, asportati dalla vicina residenza di Pi-Ramses) è costruito un grande santuario per la gloria di Amon, che Psusennes I (1040-990 circa) cinge con un possente muro di mattoni crudi. Nell'interno stesso della cinta sacra, in un angolo, è ricavata una necropoli. Costruite con blocchi di riutilizzo, a non grande profondità, le cripte di molti faraoni e dei loro grandi dignitari sono state scavate da P. Montet appena prima della seconda guerra mondiale, in un momento in cui la risonanza di una simile scoperta non poteva destare il dovuto clamore. Il periodo sarebbe potuto sembrare privo di ogni interesse se non fossero state riesumate le maschere d'oro e d'argento di Psusennes e di Pinegem; nonostante i saccheggi, il materiale raccolto assicura la gloria di Tanis. D'altronde, i fasti del faraone egizio dovettero avere una notevole risonanza alla corte di Salomone e di Davide) giacché questi ultimi cercarono nella valle del Nilo modelli per i loro inni, le loro regole di vita, il modo di amministrare e in qualche caso, una sposa. Segno dei tempi, in quanto in precedenza era del tutto impensabile che una principessa egizia potesse unirsi a uno straniero. La fragilità di questo Egitto diviso lascia campo libero a soldati di origine libica, che si impadroniscono del potere. I più potenti costituiscono la XXII dinastia, che Manetone definisce “bubastita”, dal nome della città di guarnigione da cui proveniva il fondatore della dinastia, Sheshonq I (intorno al 945-924 circa). L'Egitto presenta ora una struttura di tipo feudale, la cui configurazione politica è costituita dai legami di parentela o di alleanza fra i capi militari. Ma la civiltà resta tipicamente tradizionale: i padroni libici non sono assolutamente percepiti come degli stranieri; la classe sacerdotale alla quale partecipano tutti i dirigenti conserva intatte le proprie prerogative.
A Karnak, Sheshonq I, riaperte le cave di grès di Gebel Silsila, fa costruire il portico detto “dei Bubastiti”, dove si può riconoscere ancora la figura del faraone trionfante mentre cavalca contro Gerusalemme, dove si impossesserà delle monete d'oro accumulate da Salomone. In seguito fa edificare un tempietto a pianta classica a el Hiba, nel Medio Egitto. Nella nuova capitale, Bubasti, nel cuore del Delta, Osorkon II (862-833 circa) fa innalzare un atrio per la festa del Giubileo, i cui rilievi, finemente incisi nel granito, sono la copia fedele delle scene canoniche e delle grandi sfilate della festa-sed, raffigurazioni già note grazie all'opera di Nesure (Abu Gurab) e di Amenophis III (Soleb). A Tanis, Sheshonq III fa costruire un propileo e Sheshonq V un edificio del Giubileo.
Ulteriori ricerche nel Delta riporteranno sicuramente alla luce le vestigia, purtroppo forse in cattivo stato, di moltissime altre costruzioni dei Bubastiti. Nella stessa Karnak sono stati scoperti, reimpiegati nella parte che precede il tempio di Khonsu, rilievi di grande finezza con i nomi di Osorkon III e di suo figlio, il gran sacerdote Takelot.
Se alcune sculture reali o funerarie sono usurpate, una bella serie di opere, destinate ai templi e non alle cappelle funerarie, testimoniano di fonti di ispirazione eclettiche; le forme sono molto varie: statue-cubo, statue naofore o teofore. Pur essendo impossibile stabilire quanta parte il caso abbia giocato nella distruzione delle sculture della dinastia precedente e quanto nella conservazione di quelle dell'epoca libica, numerosi bronzi, di cui fini niellature d'oro e d'argento esaltano lo splendore, testimoniano della fama di quest'ultima. Tuttavia, continui conflitti indeboliscono l'oligarchia dei militari e del clero. Il Delta si sbriciola: una potente famiglia di Sais estende il suo potere e anche il Medio Egitto conosce piccoli sovrani.
Intorno al 730, dal lontanissimo Sud si avanza un potente condottiero, Piankhi, o Peye: signore dell'Alta Nubia, delle zone attorno a Gebel Barkal, supera steppe e deserti, attraversa l'Egitto spezzettato e giunge fin nel Delta, con una spedizione militare trionfale che una grande stele ci tramanda con geroglifici egizi. Egli impone una assoluta ortodossia, sacrificando ad Amon, il signore di Tebe, che, sotto la sua forma animale di ariete è anche il dio principale dei Cusciti. Se Peye ben presto abbandona l'Egitto alle sue lotte e ritorna in Nubia, il fratello e successore Shabaka ritorna fino al Delta intorno al 713, manda al rogo Bocchoris, il dinasta di Sais, famoso nella tradizione classica per il suo codice di leggi, e fonda la XXV dinastia. Sotto i tre sovrani della dinastia detta “etiope” o “cuscita”, Shabaka (713-698 circa), Shabataka (698-690 circa) e Taharqa (690-664), tutto il paese conosce una vera rinascita. Fedeli ai valori dell'antico Egitto, essi cercano i loro modelli al di là dei Ramessidi, fin nel classicismo del Medio Regno, e talvolta persino nelle opere gloriose dell'Antico Regno Egizio. Si ricopiano vecchie iscrizioni, come il Testo di teologia menfita. La tendenza arcaicizzante è tale che su un rilievo di Taharqa nel tempio di Kawa è rappresentata nella maniera più tradizionale la sfinge che calpesta i nemici, di fronte a una famiglia libica i cui nomi sono gli stessi di quelli che compaiono su rilievi antichi di oltre millecinquecento anni: Sahure, Pepi I e Pepi II. Ma, a Kawa e a Sanam, le decorazioni sono di uno stile più moderno: orchestra che accompagna la barca sacra, scene di trasporto su carri e su chiatte.
L'Egitto si copre di monumenti. Shabaka, le cui emissioni di scarabei sono numerose, restaura le cinte e le porte di Medinet Habu, Karnak e Dendera. A Luxor e a Medamud erige colonnati-propilei, di un tipo che sarà caratteristico della dinastia; è attivo anche a Menfi, dove sono ancora visibili opere in calcare scolpite con grande delicatezza. Shabataka, a Karnak, ingrandisce il santuario di Osiride Heka-get e dedica una cappella sulle rive del lago sacro. Il costruttore per eccellenza è Taharqa. Alle grandi realizzazioni della Nubia egli aggiunge un audace programma tebano: colonnati-propilei ai quattro punti cardinali di Karnak, piccole cappelle in onore di Osiride, testimonianza del crescente fervore nei riguardi del dio della resurrezione, che risponde benevolo all'afflitto, quale signore della vita e dell'eternità.
Nonostante volessero essere riconosciuti quali autentici faraoni egizi, i Cusciti sono stati raffigurati con i loro caratteri nubiani, adornati di gioielli a testa di ariete, mentre la tipica calotta che copre il loro capo è decorata da un doppio uraeus che evoca l'unione dell'Egitto e del Sudan.
Questi rudi guerrieri africani, la cui cultura è in un certo senso cugina di quella degli Egizi, hanno protetto la bassa valle del Nilo contro un invasore di tutt'altra natura: gli Assiri. Leggendo la Bibbia, attraverso le riunioni, le invettive dei profeti e dei sovrani di Israele, si misurano l'ampiezza e la violenza di questo conflitto che, durante mezzo secolo, oppose l'Africa e l'Asia. Nel 663 si assiste al sacco di Tebe. L'ultimo sovrano della stirpe etiope, Tanutamon, fugge verso il Sud. Gli Assiri impongono governatori loro devoti. Ma niente di questo rimane nella storiografia egizia, i cui monumenti ci consegnano un unico nome, quello del dinasta di Sais, Psammetico, che ristabilisce l'unità e l'indipendenza del paese (664-610).
Ormai l'Egitto si volge al Mediterraneo. Il Delta, che si apre al commercio marittimo con i Greci e i Fenici, prevale su un Alto Egitto votato al mantenimento delle tradizioni culturali. Psammetico fa adottare la figlia Nitocris dalle ultime Divine Adoratrici etiopi. Al piede della vetta tebana, l'Assassif, sono scavate vaste tombe, decorate di sontuosi rilievi: le camere funerarie del «quarto profeta di Amon, principe della città» Montuernhat, di Petamenophis, di Aba, di Pabasa e di Ankhhor vanno annoverate fra le grandi opere egizie. Ma a Saqqara, nella necropoli menfita, vengono scavate ben presto sepolture altrettanto impressionanti; alcune saranno di un tipo nuovo: un pozzo molto largo e profondo, in fondo al quale è ricavata la cripta, con un pozzo laterale secondario destinato a bloccare l'ambiente dopo l'inumazione.
Gli storici, senza soffermarsi sulla parentesi etiope, per lungo tempo hanno situato il «rinascimento» sotto la dinastia saita (664-525). È vero che in questo periodo esiste una spiccata tendenza a ricercare i modelli plastici nelle opere del passato, ma più di quanto forse non sembri, l'Egitto tende a volgersi verso valori più moderni. Il faraone Nechao (610-595) si dedica a progetti nuovi: inizia a scavare il canale dei Due Mari, che doveva permettere il passaggio dal Mediterraneo al Mar Rosso e organizza un periplo dell'Africa. Degno di miglior sorte, perde la battaglia contro i Babilonesi, la nuova, forte potenza della Mesopotamia. Gli Egizi, che avevano condotto con successo una formidabile spedizione militare attraverso la Siro-Palestina, sono sconfitti vicino a Karkemish (605); l'Egitto è salvato dall'invasione solo dalla morte di Nabopolassar. Nechao, energico e perseverante, appare come l'uomo delle occasioni perdute. Sotto Psammetico II (595-589), minacciati dal regno di Kush, gli Egizi entrano in guerra e si spingono fino a Napata; in questo periodo cominciano a essere scolpiti i cartigli dei sovrani etiopi e il loro caratteristico secondo uraeus; durante un viaggio in Palestina Psammetico II è accolto come un trionfatore.
La politica di espansione verso l'Asia riprende sotto Apries (589-570), ma conosce degli smacchi. Tiro resiste a un assedio di tredici anni. Nabucodonosor, nel 586, marcia su Gerusalemme; mentre un gran numero di Giudei sono condotti in cattività a Babilonia, altri si rifugiano in Egitto, attirando su di sé le maledizioni del profeta Geremia. La sua predilezione per i Greci perse Apries: essendosi i Libi rivoltati contro i Greci di Cirene e avendo chiamato in soccorso il faraone, questi non volle impiegare contro gli Elleni i suoi mercenari greci; le truppe egizie che egli inviò subirono pesanti rovesci) si sollevarono e proclamarono re il loro generale Amasis. Quest'ultimo, di umili origini, ha lasciato di sé un buon ricordo. Il suo lungo regno (570-526) assicurò la prosperità; occupandosi delle imposte) seppe calmare i sentimenti xenofobi dei suoi partIgiani e concentrò a Naucratis tutto il commercio greco dell'Egitto. Contro la minaccia dei Babilonesi stabilì buone relazioni con i Greci di Cirene, sposando persino una principessa di questa città; si alleò con Policrate, il tiranno di Samo. Ma questo regno brillante non ebbe futuro. Sotto Psammetico III, suo figlio e successore, Cambise, signore dei Persiani e dei Medi, si fece consegnare i piani di battaglia da uno dei generali greci al servizio dell'Egitto. Dopo la battaglia di Pelusio e 1'assedio di Menfi, Psammetico III dovette darsi la morte (525). Per oltre un secolo l'Egitto resta sotto il dominio persiano. Nei monumenti si riconosce il Gran Re come un faraone; il suo nome è circondato dal cartiglio; vestito alla foggia egizia, è raffigurato in atto di adempiere ai riti tradizionali. Ma contro i padroni stranieri si sviluppa una violenta corrente xenofoba. Il clero egizio si irrigidisce sulle posizioni più conservatrici. Cambise, che ha fallito due spedizioni, una contro l'oasi di Amon nel lontano Deserto di Siwa, l'altra contro i Cusciti, è descritto come una sorta di epilettico, che profana la tomba di Apries e massacra il toro Api. Tuttavia, questo ritratto così negativo lasciatoci da Erodoto, proviene dalle informazioni dei sacerdoti nazionalisti. La grande iscrizione di un «collaboratore”, Ugehorresne, ammiraglio e “Grande» dei medici, incaricato di dare un assetto al protocollo faraonico di Cambise) ci parla invece del sovrano persiano preoccupato di restaurare Sais. Sotto Dario (522-485), l'Egitto diventa la sesta satrapia persiana. I testi legislativi egizi sono riuniti in un corpus. Dario si interessa alla via del Mar Rosso, completando il canale dei Due Mari e occupandosi della strada via terra da Coptos a Kosseir. Si dedica anche a una vera politica sahariana, forse con lo scopo di controllare le lontane piste fino nel retroterra di Cartagine. A ogni modo egli fa costruire nell'oasi di Kharga un grande tempio di concezione e di decorazione completamente egizie. La prosperità dell'Egitto è indicata dal tributo che esso paga, il più pesante dopo quello di Babilonia: 700 talenti d'argento, ai quali si aggiungono le cospicue entrate dei bacini di pesca del Fayyum.
La valle del Nilo è ormai completamente aperta all'esterno; mentre operai egizi deportati lavorano al palazzo di Susa e un contingente partecipa, nell'esercito persiano, alla battaglia di Salamina, gli stranieri, soprattutto Giudei e Greci, si installano in Egitto, protetti dallo statuto persiano. È anche l'epoca dei viaggiatori greci: Ecateo di Mileto ed Ellanico di Mitilene. Ma, come ci è noto, comincia a svilupparsi un'opposizione contro i Persiani. Si esaltano le grandi figure egizie del passato, contro i nuovi l dominatori e nasce allora la leggenda di Sesostris, assieme all'ostilità contro il dio Seth, legato agli stranieri. In modo subdolo, nomi propri denigratori sono coniati per gli occupanti quali vere e proprie congiure magiche. Dopo che le guerre mede hanno reso evidenti le debolezze dei Persiani, l'insurrezione, sostenuta da Atene, diviene quasi permanente. Dopo un breve periodo di indipendenza sotto il saita Amirteo, l'unico sovrano della XXVIII dinastia, gli indeboliti Persiani riprendono il potere. Ma nel 399 sale al trono un principe di Mendes, una delle grandi città del Delta. Conosciamo poco della XXIX, dinastia, detta mendesiana (399-380). Colossali naos monolitici, ma rovesciati, giacciono tra le tetre rovine di Mendes; una missione archeologica americana ha iniziato scavi che forse desumeranno una gloria altrimenti svanita. A Karnak è stato restaurato un tempio di Akoris (393-380), in cui si nota una vivace persistenza del vecchio santuario nazionale. L'Egitto raggiunge una maggior potenza sotto la dinastia seguente, che proviene dalla città di Sebennito, anch'essa nel Delta. La XXX dinastia (380-343) rappresenta l'ultima fase della storia dell'Egitto indipendente ed è una fase brillante. Riallacciandosi alla tradizione saita, essa manifesta volontà di conquista e incrementa un'attività politica monumentale. I santuari di Sebennito e di Behbeit el Hagar offrono, incise nel granito, scene eleganti; le dee, nonostante le forme prosperose, conservano una certa grazia. Nectanebo II innalza a Dendera un mammisi (o “casa della nascita») che è il più antico conosciuto. Ferventi devoti della dea Iside, i Nectanebo legano il proprio nome all'isola di File, all'estremo sud del paese. Parecchie opere di statuaria testimoniano allora del valore dell'arte della Bassa Epoca; a fianco di un certo conformismo idealizzante, realistici ritratti ci descrivono la personalità del donatore. Quest'ultimo bagliore dell'Egitto nazionale terminerà l purtroppo in modo brutale. Con l'appoggio di generali greci si riaccende la lotta contro i Persiani. Il figlio di Nectanebo I, Teos, mobilita tutte le risorse: requisisce il metallo prezioso, tassa i cereali, fa pagare tasse di importazione e sopprime i privilegi accordati dal padre al clero di Sais. La conquista della Palestina è rapida. Ma, mentre Teos e l'esercito egizio conoscono grandi successi, un colpo di stato nel 359 pone sul trono Nectanebo II. Questi respinge nel 350 Artaserse III Oco, ma nel 343 i Persiani vincono: il faraone – ultimo sovrano nazionale del millenari Egitto – deve fuggire verso il Sud.
La seconda dominazione persiana è molto diversa dalla prima. I Gran Re entrano in violento conflitto con gli Egizi, cominciano a spogliare sistematicamente il paese e sono accusati di mangiare animali sacri. Un saggio di Ermopoli, Petosiris, ha lasciato alcune testimonianze su quest'epoca di desolazione; la sua tomba-tempio, dove in alcune scene si individua un' influenza tipicamente greca, reca incise belle iscrizioni, dove egli esprime la sua fede nel dio. Nelle vicinanze, la grande necropoli di Tunah el Gebel, con vaste installazioni destinate agli ibis e ai babbuini e immensi corridoi sotterranei dove sono riposte le mummie di questi animali sacri al dio Thot, attesta l'importanza di un clero bigotto che, tramite la zoolatria, ricrea un culto più egizio e più particolarista di quanto non sia mai stato. Nel 333 Alessandro Magno batte Dario III Codomano a Isso e, dopo gli assedi di Tiro e di Gaza, giunge in Egitto. Velocemente si addentra nel profondo Deserto libico, nell'oasi di Siwa, per consultare suo “padre” Amon, giacché il culto del dio cornuto era penetrato fino in Macedonia. Nel Nord dell'Egitto fonda Alessandria per facilitare le comunicazioni sia verso il Mediterraneo sia, al di là del Mar Rosso, verso l'Estremo Oriente. All'Egitto egli appare come un faraone e viene incoronato a Menfi. Numerose scene incise nei templi ce lo mostrano in atto di compiere i riti cultuali, così come sarà raffigurato il fratellastro Filippo Arrideo, che gli succede nel 323, e poi, dal 317 al 311, Alessandro, suo figlio. Ma l'Egitto faraonico non si arresta in quel momento. Dopo Tolomeo I Sotere (306-286), generale macedone divenuto signore della valle del Nilo, i Lagidi continueranno a essere faraoni, come lo saranno i Cesari romani.
La storiografia, che si basa essenzialmente sulle fonti classiche, greche e poi latine, ci parla dell'Egitto prima come facente parte dei regni ellenistici e poi come di una provincia dell'impero romano. Ma chi si interessa all'arte egizia deve porsi su un piano diverso; si tratta qui di un autentico capitolo della storia dell'arte faraonica. Sulla scia dei Nectanebo, l'arte tolemaica dà vita, nei momenti più felici, a uno stile pieno di fascino. La decorazione del tempio di Behbeit el Hagar viene completata. Mentre ad Alessandria si sviluppa una religione composita, nella quale Serapide incorpora moltissimi caratteri dell'antico Osiride e Iside è raffigurata come una sorta di Venere o di Demetra classiche, nelle impressionanti gallerie del Serapeum di Menfi si allineano, regolarmente, le enormi vasche dei tori Api.
Si giunge a considerare sacre intere specie di animali. Immense necropoli sotterranee nascondono centinaia di migliaia di spoglie mummificate di tori, di arieti, di gatti, di falchi e di ibis. Sotto uno degli ultimi Tolomei, un romano che aveva ucciso un gatto, fu massacrato dalla folla. In tutti i piccoli santuari locali i sacerdoti ricopiano i loro libri ermetici e i loro testi magici in demotico, evocando strane pratiche. Stele più o meno grossolane, innumerevoli statuette e amuleti attestano il fervore popolare.
Bisognerebbe forse seguire più analiticamente l'evoluzione delle idee e dei costumi dell'ambiente egizio e non limitarci a quel che la documentazione dei papiri greci ci fa conoscere intorno ai coloni greci o alla popolazione ellenizzata. Una tappa è segnata dal regno di Tolomeo IV (221-203) e dalla battaglia di Rafia, che sottolinea l'importanza degli elementi indigeni dell'esercito. A ogni modo il ruolo degli dei egizi rimane immenso. Il faraone, sia egli macedone sia, più tardi, romano, deve tributare loro il culto. Il fervore architettonico abbandona il Delta. Come i grandi culti tradizionali, l'arte propriamente egizia si rifugia nell'Alto Egitto. Durante quasi due secoli (237-57) a Edfu, si prosegue la costruzione e la decorazione di un enorme tempio di pianta molto regolare, lungo 137 m, il cui pilone raggiunge i 35 m di altezza, che è consacrato a Horus, il dio nazionale e dinastico per eccellenza.
A Dendera si leggono i nomi degli ultimi Tolomei e quelli degli imperatori romani fino a Nerone. La facciata con gli enormi sistri simboleggia il culto reso a Hathor. La dea allatta Cesarione, il figlio di Cleopatra e di Cesare, la cui nascita divina era narrata dai bassorilievi del tempio, oggi scomparso, di Erment. In prossimità del tempio di Hathor a Dendera, un nuovo mammisi reca i cartigli degli imperatori da Nerone ad Antonino. Di fronte al pilone del tempio di Luxor, nel 126 della nostra era, Adriano dedica un piccolo santuario innalzato su un podio; una lside di stile greco domina la statua del toro Api, un Osiride Canopo, stele e altari. A Kom Ombo, da Tolomeo VI Filometore (181-143) fino a Macrino e a Diadumeniano (218 d.C.), si prosegue la costruzione e la decorazione di un curioso tempio doppio consacrato sia al dio-coccodrillo Sobek sia al dio-falco Horus il Grande. Il I secolo della nostra era vede l'apogeo dell'importante complesso di File; l'isola santa di Iside diventa allora quella perla dell'archeologia egizia che meritava certo uno sforzo internazionale per essere : salvata dalle acque; all'inizio del II secolo d.C. Traiano vi associa il proprio nome a un raffinato padiglione; pellegrinaggio cosmopolita, essa riceve regolarmente le ambascerie dei Meroiti; i sacerdoti di Iside saranno espulsi dai venerabili santuari della Prima Cateratta solo verso il 535 d.C. sotto il regno di Giustiniano. Prima, durante secoli, attraverso la Bassa Nubia si ingrandiscono i templi; si costruiscono persino nuovi santuari quali Kalabsha e Dendera, in nome di Augusto. Se ci si spinge fino alle oasi del Deserto libico, dove alcune fortezze indicano vigorosamente il limes romano in queste regioni desertiche, troviamo santuari restaurati o dedicati dagli imperatori romani: Vespasiano a Deir el Hagar nell'oasi di Dakhla, Domiziano, Traiano e Adriano nel tempio di Dush all'estremo Sud dell'oasi di Kharga, avamposto a guardia delle piste che si dirigono verso il Regno meroitico. Le innumerevoli scene e le interminabili iscrizioni incise su questi templi testimoniano, con sapienti giochi di scrittura, delle elaboratissime speculazioni delle scuole teologiche. Se soltanto Vespasiano, Adriano, Settimio Severo e Caracalla visitarono l'Egitto, le crisi del Basso impero romano ebbero ripercussioni fin nell'Alto Egitto.
A Esna le immagini faraoniche e i cartigli di Geta sono martellati da Caracalla, suo fratello nemico; quelli di Filippo 1'Arabo sono distrutti da Decio (250 d.C.). Ormai non vi sono più grandi costruzioni di stile faraonico. Gli usciabti, così caratteristici della civiltà egizia, non esistono più: l'ultimo è a nome di Pashery-en-Ptah, gran sacerdote di Menfi sotto Cleopatra VII (41). Dopo l'inizio dell'era cristiana, le statue di stile puramente egizio divengono via via più rare per poi scomparire completamente. Tuttavia alcuni testi geroglifici vengono incisi sotto Diocleziano (284-305) e sotto Massimino Daia, fin sotto Teodosio) nell)agosto del 394 d.C.; alla metà del v secolo d.C., a File, si scrive ancora in demotico. Stupefacente persistenza della cultura egizia.
Tuttavia, in Egitto, da oltre cinque secoli 1'ellenismo è presente e in una situazione di forza. E vi si è sviluppata un' arte ibrida greco-egizia, sulla quale forse è prematuro esprimere un giudizio. Le vaste necropoli di Alessandria (Kom el Chugafa, Anfuchy) e anche alcuni siti del Fayyum ci consentono un primo approccio; alcune opere non mancano di un certo fascino: un toro sacro, col nome di Adriano, avanza prepotentemente. Arte egittizzante a gradi diversi ma che, nei riguardi delle grandi epoche anteriori, accusa la stessa distanza, rispetto all'autentica religione egizia, dei culti detti “isiaci” che si sviluppano tutt'attorno al Mediterraneo.
Per quanto originale, e persino superbamente chiusa in se stessa, la civiltà egizia, nel suo ultimo millennio, dovette confrontarsi con tanti nuovi signori stranieri. Con la cultura greca forse ci furono, in un primo momento, contatti utilissimi e fecondi, come testimoniano Erodoto e Platone; ma la pressione politica dell'occupazione da parte dei Tolomei e quella della koinè ellenistica l'avevano spinta a raccogliersi in sé esprimendosi ancora in modo grandioso con i grandi templi e le ampie elaborazioni teologiche) forse molto più bigotte nei culti popolari) zoolatri e magici. Con il trionfo del cristianesimo l'Egitto perde i suoi dei, la sua scrittura, la propria civiltà; morta la grande tradizione, bisognerà cercare nell'arte copta le sole sopravvivenze.
Jean Leclant
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