Tratto dal libro di Alan Gardiner - La civiltà egizia - Einaudi

In questo capitolo Alan Gardiner fa una breve storia dell'egittologia, e illustra le origini del pregiudizio sull'antica e misteriosa sapienza egizia tuttora coltivato da molti appassionati e sedicenti studiosi.

I primi a descrivere con abbondanza di particolari l'Egitto e i suoi abitanti ai propri conterranei furono due scrittori greci originari di città ioniche della costa occidentale dell'Asia Minore, dove, nel secolo VI a.C., viveva il popolo più avido di conoscenze di quanti mai fossero apparsi fino allora sulla terra. Ragioni precise fecero inoltre si che la loro curiosità si rivolgesse in particolare all'Egitto.

Nella prima metà del secolo VII a.C. infatti gli abitanti della Caria e della Ionia avevano prestato servizio come mercenari nell'esercito del re saitico Psammetico I, che combatteva per imporre il proprio dominio su tutta la valle del Nilo. Mercanti e semplici viaggiatori dovettero certamente seguire la scia dei guerrieri, riportando poi in patria il ricordo delle strane cose viste e apprese in un paese così diverso dal loro, e sbalordendo l'uditorio con racconti su una regione dove le piogge cadono di rado e i campi sono fecondati dalle piene annuali di un grande fiume. Questi primi viaggiatori erano penetrati nell'Egitto con l'idea preconcetta di ritrovarvi il corrispettivo di molte delle cose che già erano loro familiari nella terra natia, e molti dei nomi che diedero ai luoghi e agli oggetti incontrati sul proprio cammino sono rimasti e giunti fino ai giorni nostri. Arrivando dal mare, si trovarono in una vasta regione che per la sua forma triangolare ricordava la loro quarta lettera dell'alfabeto. Raggiunto il vertice del delta s'imbatterono nella grande città di Memfi, chiamata anche Hikuptah, "Dimora del Ka (anima) del [dio] Ptah", nome che suggerì probabilmente ad Omero la parola Aigyptos (Egitto), con la quale designava tanto il fiume Nilo che la regione da esso bagnata.

A Memfi i visitatori ammirarono stupiti le gigantesche costruzioni alle quali diedero per scherzo il nome di piramidi, ossia "torte di frumento", mentre nella vicina Eliopoli a suscitarne la meraviglia furono i superbi monoliti di granito, per i quali non seppero trovare un nome più appropriato di obelisco, cioè "piccolo spiedo". Continuando a risalire il Nilo, giunti nei pressi di un canale che portava al lago di Meride, nell'attuale El-Faiyum, venne loro mostrato un grande edificio composto da numerose sale e costruito, a quanto appresero, per servire da sepolcro a un certo re Lamarés o Labarés, a noi noto sotto il nome di Ammenemés III della XII dinastia. I Greci ne conclusero che si trattava di un secondo Labirinto, un duplicato dell'intricata costruzione dovuta all'ingegnosità del cretese Dedalo. Più a sud giunsero a un importante centro urbano il cui nome egizio chiaramente equivaleva ad Abido nell'Ellesponto. Ancor più a monte lungo il fiume si trovava una grande città i cui numerosi pilastri attestavano chiaramente che era la famosa "Tebe dalle cento porte" cantata dal poeta dell'Iliade. Proprio di fronte, sulla sponda opposta del Nilo, al margine del deserto occidentale, si vedevano alcuni templi; il nome dei costruttori, così come nel caso di un grande tempio di Abido, ricordava quello dell'eroe etiope Memnone, ucciso da Achille sotto le mura di Troia, cosa che indusse i Greci a descrivere questi edifici col nome di Memnoneia. Ma, fra le stravaganti fantasie dei primi visitatori ioni, la più curiosa fu quella di supporre che gli dèi e le dee adorati dagli Egizi non fossero altri che le proprie divinità: Crono, Zeus, Efesto, Apollo, Afrodite, e così via. Li rendeva però perplessi ritrovare Zeus o Amún (Ammòn) come lo chiamavano gli Egizi, sotto forma di ariete, e Apollo, l'egizio Horo (Oros), con la testa di falco: qualche profonda ragione mistica doveva giustificare queste bizzarrie. Le innumerevoli meraviglie viste in Egitto e la loro indiscutibile antichità non potevano mancar d'ispirare una timorosa reverenza nel cuore dei viaggiatori che giungevano dall'altra sponda del Mediterraneo; fu così gettato il seme di quella leggenda della sapienza egizia, che durò quasi incontestata per duemila anni.

Un viaggiatore, poi, particolarmente dotato di spirito d'osservazione e di abilità descrittiva, avrebbe trovato ampia materia per i suoi scritti. E questo il caso di Ecateo ed Erodoto. Il primo, Ecateo di Mileto (circa 540-480 a.C.), pare si sia interessato piuttosto ai problemi della formazione del delta e delle piene del Nilo, e alla fauna della regione, che non agli abitanti e alla loro storia. La sua Periegesi, in cui trattò tali argomenti, è andata perduta ed è qui citata solo perché la prima di questo genere. E difficile pensare che, qualora ci fosse pervenuta, avrebbe retto il confronto con quella di Erodoto di Alicarnasso (circa 484-430 a.C.), al cui grande genio si deve la prima ampia descrizione dell'Egitto, giunta intatta fino a noi. Il libro II, che porta il nome della musa Euterpe, è una prolissa digressione, ricca di aneddoti e assai piacevole, introdotta nel racconto dell'epica lotta fra i Greci e i Persiani, e l'autore si scusa per la lunghezza della narrazione adducendone a ragione "le meraviglie dell'Egitto, invero numerosissime, e le opere di questo paese che sono di una grandiosità indescrivibile". Viaggiando per diporto e per studio, poco dopo il 450 a.C., Erodoto si era spinto fino alla prima cateratta, ma, secondo la critica moderna, il suo viaggio non sarebbe durato più di tre mesi. Ciò spiegherebbe la mancanza di una descrizione esauriente di Tebe e dei suoi monumenti, sebbene altre omissioni analoghe, come la mancanza di un qualsiasi accenno alla Sfinge, siano forse da attribuirsi piuttosto alla sua predilezione per il meraviglioso e il puramente dilettevole, caratteristica che lo indusse a riferire per esteso i racconti uditi dagli interpreti indigeni e dai subalterni addetti ai templi, da lui scambiati per sacerdoti. Le accuse di menzogna dirette contro Erodoto da critici antichi e moderni sono in gran parte dovute proprio alla sua descrizione dell'Egitto, ma in realtà non vi è ragione d'impugnarne la buona fede. Lo studioso deve piuttosto guardarsi dalle tradizioni popolari presentate come storia, dalle cifre citate in modo inesatto, dalle asserzioni vere nella sostanza, ma esagerate e travisate nella forma. Si può dire che non esiste un solo aspetto della vita degli Egizi che non abbia suscitato l'interesse di Erodoto. I suoi resoconti sull'Antico Regno sono inutilizzabili sebbene non gli fosse ignoto il nome del fondatore, Min (Mènès). Inoltre, egli seppe tramandarci, in forma solo lievemente alterata, i nomi dei costruttori delle piramidi di Giza, Cheope, Chefren e Micerino. Comunque, l'errore più grave fu quello di aver situato prima di costoro, anziché dopo, un certo re Sesòstris, nel quale si fondono vari regnanti dello stesso nome (Senwosre) appartenenti alla XII dinastia degli elenchi di Manetone, e le cui conquiste, esagerate oltre misura, si sarebbero estese fino alla Scizia e alla Colchide sulla sponda orientale del Mar Nero. Ma la trattazione dei sovrani egiziani da Psammetico I (664-610 a. C.) in avanti è degna di fede, per quanto è lecito attendersi da colui che, dopo tutto, fu il Padre della Storia, secondo la definizione di Cicerone, e il primo a distinguere il genere storico dal racconto poeticamente romanzato. Per quanto concerne la geografia, Erodoto ci dà notizie preziose, ma riguardanti essenzialmente la regione del delta; non nomina che poche città a sud di El-Faiyum, dell'Egitto vero e proprio cita solamente Chemmi (Akhmim), Tebe, Siene, Elefantina e una misteriosa Neapoli. Dei diciotto nomoi, o province, da lui citati, almeno la metà sono facilmente identificabili; tuttavia l'elenco contiene alcuni nomi che non ci sono pervenuti attraverso altre fonti, dovuti probabilmente a interpretazioni errate. Le notizie sulla religione egiziana, benché ampie, sono deludenti; egli stesso, del resto, dichiara di voler mantenere un certo riserbo sull'argomento. Alcune divinità sono citate col nome egizio (Amún, Bubasti, Iside, Osiride, Horo), ma di regola Erodoto preferisce l'equivalente greco, condizionato com'è dall'idea che gli Elleni abbiano derivato dall'Egitto non solo molte pratiche religiose, ma anche gli dèi stessi. Le descrizioni di festività locali hanno forse conservato molti particolari veridici. In realtà, l'opera di Erodoto abbonda di ogni sorta di notizie interessanti impossibili a controllarsi su altre fonti. Di notevole interesse è, per esempio, il passo (II 35-36) in cui enumera le caratteristiche che distinguono gli Egizi dagli altri popoli. Si può dichiararlo sicuramente in errore quando afferma che non esistevano vigneti in Egitto (II 77), cadendo in lampante contraddizione con se stesso (II 37, 39).


Ben poco ci è rimasto di quanto fu scritto sull'Egitto nei secoli seguenti. Non si ricordano autori degni di nota fino a Platone (428-347 a.C.) che nelle sue opere fornisce incidentalmente notizie non prive di valore; egli non ignora, per esempio, il nome della dea Néith di Sais e sa precisare quali erano gli attributi di Thòth, dio delle lettere, della scienza e dell'astronomia, nonché inventore del gioco della dama. Dal momento che qui ci interessano soprattutto gli autori di cui sopravvivono le opere complete, possiamo tralasciare le notizie disseminate negli scarsi frammenti di scrittori del secolo IV a.C., come Ecateo di Abdera. Dopo Alessandro Magno i coloni greci che sotto i Tolomei si riversarono in Egitto erano troppo assorbiti dal commercio e dall'agricoltura per interessarsi agli esotici costumi dei propri vicini indigeni. Un resoconto dell'Egitto più lungo, ma assai meno importante di quello di Erodoto, ci è pervenuto da un autore dell'epoca di Giulio Cesare, e cioè dal greco Diodoro Siculo che soggiornò per breve tempo in Egitto attorno al 59 a.C. Alcuni fatti da lui citati nel libro I della storia universale furono appresi per esperienza diretta, tuttavia le sue fonti principali sono gli scrittori che lo hanno preceduto, come il già ricordato Ecateo di Abdera (vissuto intorno al 320 a.C.) e il geografo e storico Agatarchide di Cnido (secolo II a.C.). Diodoro, pur unendosi al coro di critiche contro Erodoto, non poté evitare di valersi ampiamente delle Storie. I due autori trattano pressappoco i medesimi argomenti, ma ciascuno riferisce fatti omessi dall'altro. Dal punto di vista letterario sono ai poli opposti. Diodoro non possiede affatto quella capacità di creare personaggi con pochi tratti e quel gusto per l'aneddoto divertente che sono il pregio dell'opera di Erodoto. E uno scrittore metodico, lento, monotono, facile da analizzare, ma noioso da leggere. Un breve schizzo della cosmogonia conduce a un'esposizione della concezione che ne avevano gli Egizi e della sua base nelle opere degli dèi; molto spazio è dedicato al dio Osiride. Purtroppo però i numerosi particolari autentici e per noi preziosi si accompagnano a una narrazione delle imprese militari del dio, molto lontana dallo spirito egizio. Segue una documentazione completamente falsa sulle colonie egizie in Babilonia, in Colchide e in Grecia. L'autore si dilunga sulla geografia dell'Egitto, il suo fiume, la flora e la fauna, per concludere con una complicata discussione sulle cause delle inondazioni. Quindi, dopo un breve paragrafo dedicato all'alimentazione degli Egizi, Diodoro passa alla loro storia. Ménàs (Ménés) è ricordato come il primo sovrano, mentre il regno dei cinquantadue successori viene liquidato sbrigativamente come non segnato da avvenimenti degni di nota. Facciamo poi conoscenza con un non meglio identificato Busiride, mitico fondatore di Tebe, città di cui viene data un'ampia descrizione culminante con quella, di notevole precisione rispetto al livello storico, dell'epoca del monumento di Osymandyas (Ramessés II), ora noto col nome di Ramesseum. Posponendo la fondazione di Memfi a quella di Tebe e al regno di Osymandyas, Diodoro inverte l'ordine reale dei fatti, e in effetti tutta la prolissa trattazione del periodo storico più antico, sebbene corredata da numerosi nomi citati più o meno esatti, è ancor più vistosamente errata di quella di Erodoto nella successione cronologica degli avvenimenti. Uno spazio eccessivo è dedicato alle imprese di Sesoòsis (Sesòstris), di cui abbiamo già parlato. Di grande interesse sono gli ultimi trenta paragrafi del primo libro che trattano i più disparati argomenti: i rituali che regolano la vita dei sovrani, l'amministrazione delle province e il sistema delle caste, la giustizia e le leggi, l'educazione, la medicina, il culto degli animali, i riti funebri, il culto dei defunti, e, infine, il debito della Grecia verso l'Egitto. Ma è solo nel racconto degli avvenimenti dei secoli V e IV a.C. che l'opera di Diodoro si fa veramente indispensabile per lo studioso e che regge il confronto con quelle di Tucidide e Senofonte per autorevolezza storica. Gran parte di quello ch'egli riferisce sulle epoche più antiche non può esser controllato confrontandolo con altre fonti, e tutta l'opera, essendo più che altro una compilazione, è di valore assai disuguale.

Anche qui come per tutti gli scrittori dell'antichità classica, ci troviamo di fronte a un dilemma: quando un particolare della narrazione è confermato da attendibili testimonianze desunte da altre fonti diventa in certo modo superfluo, ma se una simile testimonianza non esiste la nostra fiducia nell'autore non basta a convincerci.

Una parziale eccezione a questa regola generale si dovrà fare per Strabone, scrittore di lingua greca nativo del Ponto, che visse alcuni anni ad Alessandria e accompagnò Elio Gallo, prefetto romano e suo amico fino alla prima cateratta, probabilmente nel 25-24 a.C. La trattazione dell'Egitto di Strabone è relativamente breve e fa parte del XVII e ultimo libro delle sue Geógraphika, per quanto cenni sul medesimo paese si trovino dispersi in altre parti dell'opera. Egli inizia con una breve dissertazione sul Nilo e continua con una lunga descrizione di Alessandria e della regione a oriente della città. La sua indagine prosegue quindi in ordine topografico. I nomi e le città del delta sono trattati con ampiezza di particolari, e il rilievo che dà al Basso Egitto è molto importante in quanto scarsi sono i documenti indigeni e i monumenti che ne rimangono. L'attenzione di Strabone non è rivolta esclusivamente alla geografia e, insieme a qualche digressione di carattere storico, egli non tralascia di fornirci interessanti notizie sui culti, sugli edifici e su altri argomenti importanti. Una testimonianza dell'accuratezza di Strabone è la descrizione del pozzo di Abido, "che si trova a grande profondità, di modo che per giungervi si scende attraverso gallerie a volta formate da monoliti che stupiscono per le loro dimensioni e per l'abilità dei costruttori"; questo passo si riferisce evidentemente al bacino scoperto da Naville nel cosiddetto cenotafio di Sethòs I. {mospagebreak} Strabone è il primo a parlare della statua sonora di Memnone a Tebe, una delle due colossali figure sedute che esistono ancor oggi nella piana a occidente di Luxor che all'alba emetteva un suono udito da molti illustri visitatori greci e romani Egli ci descrive anche il Nilometro di Elefantina, un esemplare particolarmente famoso nel suo genere, consistente in una sorta di scala sulle cui pareti veniva segnato ogni anno il livello massimo raggiunto dalla piena del Nilo. Le notizie storiche e quelle sulle usanze religiose vanno naturalmente vagliate con la medesima cautela raccomandata per gli scrittori già citati, ma dal punto di vista puramente geografico l'opera di Strabone è del tutto attendibile. Entro i confini dell'Egitto moderno, cioè fino alla frontiera sudanese, una ventina di miglia a nord dello Wadi Halfa, egli nomina circa novantanove città e altri centri minori, molti dei quali sono localizzabili con una certa sicurezza. Concludendo, osserviamo che Strabone fu scrittore vivace e non privo di abilità.


L'enciclopedica Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) è una vasta raccolta di notizie derivanti dalle opere di autori precedenti e riguardanti tutti gli oggetti materiali non prodotti dall'uomo cui intercala numerose digressioni sulle invenzioni e istituzioni umane. Naturalmente viene trattato anche l'Egitto. Plinio ha una certa importanza come esperto di geografia egiziana, seppure meno di Strabone e Claudio Tolomeo che verso il 150 d.C. pubblicò un suo Peri tes geographikis yphegeseos. Le parti di quest'opera che riguardano l'Egitto e le regioni vicine sono brevi e per lo più si limitano a un elenco dei nomi con le relative città principali e alcune delle minori. Non staremo a ricordare le altre fonti grecoromane sull'argomento, perché il lettore che s'interessa alla geografia egiziana di quei tempi troverà tutto quanto desidera nell'ammirevole libro in lingua inglese del defunto J. Ball.

Né ci dilungheremo oltre sulle notizie riguardanti gli aspetti della vita quotidiana e della storia egizia che si possono rintracciare negli scritti di vari autori greci e romani. Premesso che ci riserviamo di trattare in seguito l'importantissima opera di Manetone, passiamo alla religione, basandoci sugli scrittori classici e su quelli posteriori. A mano a mano che l'influenza greca prima, e romana poi, si affermava nella terra dei faraoni, la cultura indigena tradizionale diveniva sempre di più prerogativa della casta sacerdotale che aveva tutto l'interesse ad esaltare ed esagerare la profonda saggezza e la misteriosa sapienza degli avi. I poeti satirici, come Giovenale '(47-127 d.C.), avevano un bel farsi beffe di un popolo che adorava i gatti e i coccodrilli; molti dei migliori scrittori dell'età postaugustea continuavano a pensare che quel popolo possedesse cognizioni a loro ignote. Indebolitasi la fede nei vecchi dèi dell'Olimpo, le popolazioni di Roma e delle province dell'Impero cadevano facile preda del miraggio offerto da qualsiasi religione orientale. Il culto di Iside si diffondeva in ogni angolo dell'Impero, per quanto neppure i più devoti adoratori della dea avessero idee chiare sul suo conto. Una testimonianza assai interessante di questa loro perplessità ci viene da Plutarco di Cheronea (50-120 d. C.) nel suo trattato intitolato De Iside et Osiride. Nei primi capitoli egli narra in forma piana e scorrevole la storia di Osiride, il buon re ucciso a tradimento dal malvagio fratello Tifone (Séth) e in seguito vendicato dal figlio Horo allevato in segreto dalla madre Iside. La leggenda narrata da Plutarco, e già trattata in precedenza da Diodoro, concorda nella sostanza con quella che si può desumere dai testi egizi, sebbene si siano aggiunti molti particolari, taluni forse derivati da fonti indigene andate perdute. Ma quando lo scrittore si addentra nell'esegesi il suo inconscio imbarazzo appare evidente. Egli sottolinea il fatto che la leggenda non va presa alla lettera, e le molteplici forme sotto le quali si nasconde forse la verità, vengono paragonate ai molteplici colori dell'arcobaleno, riflessi di un unico sole. A un certo punto egli identifica Osiride con il Nilo che si congiunge alla Terra (Iside), ma è poi sopraffatto dal mare (Tifone). Oppure Osiride può essere identificato con tutti gli umori vitali, mentre Iside è la Terra, e il figlio Horo è l'umidità atmosferica stagionale del delta. O ancora, Tifone è la potenza della siccità, mentre Horo è la pioggia vittoriosa su di essa. Secondo altri, Tifone è il sole spietato, Osiride il rugiadoso chiarore lunare, e così via, un'interpretazione allegorica dopo l'altra per pagine e pagine. Non si può affermare con certezza che l'origine di tutte queste interpretazioni non sia egizia, ma nel complesso esse portano il marchio inconfondibile dell'ingegnosità speculativa dell'Occidente.

Con il diffondersi del cristianesimo le divinità pagane vennero a poco a poco bandite e Iside trovò un ultimo rifugio nell'isola di File, oltre la prima cateratta, dove il suo culto scomparve solo nel secolo V.

Ma benché la religione indigena dell'Egitto fosse ormai scomparsa, perdurava la fede nella profonda sapienza esoterica dei suoi antichi sacerdoti, e perfino la Bibbia l'incoraggiava con accenni alla saggezza dell'Egitto e ai prodigi compiuti dai suoi maghi (Esodo 7.11, 22). Si dava ancora credito alla tradizione che voleva gli antichi filosofi greci, come Talete e Pitagora, discepoli dei sacerdoti egizi.

Ma ciò che forse più di ogni altra cosa contribuì a perpetuare questi pregiudizi fu l'enigmatico aspetto dei geroglifici. Quelle rappresentazioni in miniatura di uomini e animali, piante e corpi celesti, case e arredi dovevano certo essere i simboli di profonde dottrine mistiche, dal momento che ricoprivano da cima a fondo le pareti dei grandi templi egizi. I primi scrittori greci mantennero un curioso silenzio sulla natura dei geroglifici, e solo Diodoro (III 4) cercò di spiegarli affermando che quei segni non avevano valore fonetico ma erano decisamente allegorici. Cheremone, precettore di Nerone, segui il suo esempio in un libro di cui ci rimane solo un breve passo. Comunque, il vero scoglio per tutti i decifratori che dovevano seguire fu il trattato sui geroglifici di un certo Orapollo, erudito egiziano del secolo V d.C. Eccone un esempio: "Come essi (gli Egizi) indicano l'anima."
"Inoltre, il Falco sta a indicare l'anima, dal significato del suo nome; infatti fra gli Egizi il falco è chiamato Baieth, e questo nome scomposto significa anima e cuore, perché la parola Bai vuoi dire anima, ed eth cuore; e il cuore secondo gli Egizi è il ricettacolo dell'anima, cosicché, ricomposto nei suoi elementi, il nome significa "anima nel cuore".

Vi è una certa parte di verità nel brano citato; nella scrittura egizia il vocabolo anima veniva infatti scritto con un segno che rappresentava un uccello; ma l'interpretazione allegorica è del tutto erronea e mette il decifratore sulla strada sbagliata. Un passo nell'opera del colto presbitero Clemente Alessandrino (150-215 d.C.) sembrerebbe testimoniare una più esatta valutazione della natura dei geroglifici, ma le espressioni usate dall'autore sono troppo ambigue per frenare le fantasiose teorie della maggioranza.

Nel secolo mentre le tenebre del Medioevo si addensavano sull'Europa, l'Egitto cadeva nelle mani degli invasori maomettani. Solo dopo il Rinascimento vi fu un risveglio d'interesse per i suoi antichi monumenti. La maggior parte dei viaggiatori che si avventuravano in Egitto avevano come meta la Terrasanta e pochi si spingevano oltre la zona del Cairo. Fra i più audaci divenne di moda recarsi fino a Saqqara dove corrompevano gl'indigeni per farsi disseppellire qualche mummia e pochissimi ritornavano in patria con qualche preziosa e inedita informazione. Tra di essi il più importante fu forse il gesuita Cl. Sicard (1677-1726), il primo esploratore relativamente moderno che raggiunse Aswan. Egli riscoprì il luogo dove sorgeva Tebe e affermò di aver visitato ventiquattro templi e oltre cinquanta tombe scavate nella roccia e adorne di dipinti o sculture; disgraziatamente non pubblicò gran cosa e il suo maggior contributo è la mappa di cui si servi in seguito J.-B. B. d'Anville per la sua carta geografica dell'Egitto apparsa nel 1766.

Fra i più famosi libri di viaggio possiamo citare quelli del danese Fr. L. Norden (1708-1742) e degli inglesi R. Pococke (1704-65) e J. Bruce (1730-94); ma già molto prima era stata stampata una monografia sulle piramidi di tono schiettamente scientifico, la piramidografia dell'astronomo oxoniense J. Greaves (1646). La maggior parte di questi libri erano il-lustrati ma le incisioni presentavano grossolane inesattezze. Di grande utilità per gli studiosi che non potevano recarsi di persona in Egitto furono i manoscritti copti che incominciarono ad affluire in Europa dagli inizi del secolo XVII. Un certo numero di questi che si era procurato in Egitto Pietro della Valle capitarono in mano al colto gesuita Athanasius Kircher il cui libro intitolato Lingua Aegyptiaca Restituta (1643) fu il punto di partenza da cui presero le mosse gli studiosi di quest'ultima fase della lingua egizia scritta nell'alfabeto greco con l'aggiunta di pochi altri caratteri. Senza una buona conoscenza del copto la decifrazione dei geroglifici non avrebbe fatto in seguito così rapidi progressi. Non c'è che da rimpiangere che il Kircher, per altri lati davvero meritorio, non abbia saputo trattenersi dallo sfrenare la propria fantasia in cervellotiche interpretazioni dei geroglifici. Per darne un esempio, il nome del faraone Apriés scritto su di un obelisco romano significa per Kircher " che "la benevolenza del divino Osiride deve esser procurata per mezzo di cerimonie sacre e della catena dei Geni, onde possano ottenersi i benefici del Nilo". Nello stesso tempo questo grande erudito, come fecero poi P. E. Jablonski (1693-1751), a lui di poco posteriore, e G. Zoega alla fine del secolo XVIII, raccolse in ponderosi volumi tutte le notizie e ipotesi divulgate dai suoi predecessori. Scarsi furono gli ulteriori progressi fino a che il paese stesso non si dischiuse agli studiosi e fu possibile scoprire la chiave delle antiche scritture.

Questa, in breve e con molte omissioni, era nell'età prenapoleonica l'egittologia, se si può applicare questo termine a un ramo dello scibile ancora totalmente acritico e non scientifico. La nuova era ebbe inizio con la spedizione di Bonaparte in Egitto (1798) e con la scoperta della stele trilingue di Rosetta [L’Egitto rivuole indietro la Stele di Rosetta], avvenuta l'anno seguente, sulla quale era inciso un decreto del consiglio dei sacerdoti in onore di Tolomeo V Epifane promulgato nell'anno 196 a.C. Il testo greco e il demotico erano quasi integri, alquanto frammentario il geroglifico. Fu subito chiaro che questo prezioso documento offriva un'occasione, quale mai si era presentata in passato, per decifrare la lingua. La storia del successo finale è già stata narrata più volte. Il primo passo fu compiuto dal diplomatico svedese Akerblad che concentrò la propria attenzione sull'esame dell'iscrizione in corsivo immediatamente al di sotto di quella geroglifica, riconoscendo in essa il demotico di cui aveva parlato Erodoto (II 36). Dopo esser riuscito a localizzare i nomi propri confrontandola con l'iscrizione greca, individuò circa la metà delle lettere dell'alfabeto e si convinse che si trattava della lingua che in seguito si trasformò in quella copta.


Il saggio di Akerblad venne pubblicato nel 1802, ma solo nel 1814 furono compiuti ulteriori progressi ad opera di Th. Young, celebre per aver enunciato la teoria ondulatoria della luce. Uomo di profonda cultura e vasti interessi, era sempre pronto ad affrontare qualsiasi problema nuovo gli si presentasse. Non tardò a rendersi conto che i due sistemi di scrittura, la demotica e la geroglifica, avevano stretti rapporti fra di loro, e avendo osservato che nella parte greca della stele molte parole si ripetevano, riuscì a dividere il demotico in ottantasei gruppi di parole, molti dei quali esatti. Per la scrittura geroglifica prese come punto di partenza il fatto, già intuito dal de Guignes e dallo Zoega, che i cartigli o "anelli regali" (fig. I) contenevano i nomi dei re e delle regine e, per citare il Griffith, "molto ingegnosamente e con una certa fortuna individuò il cartiglio di Berenice oltre a quello già noto di Tolomeo e avanzò l'ipotesi, dimostratasi esatta, che un altro cartiglio fosse quello di Tuthmòsis della XVIII dinastia secondo Manetone. Isolò anche i caratteri alfabetici per F e T e il "determinativo" usato nei testi più tardi per i nomi femminili, inoltre, da varianti trovate sui papiri, comprese che caratteri differenti potevano avere gli stessi valori - scoperse, in breve, il principio dell'omofonia. Tutto questo si mescolava a molte conclusioni errate, ma il metodo seguito doveva infallibilmente condurre alla decifrazione completa".

Non riuscendo a fare ulteriori progressi e assorbito da lavori d'altro genere, Young abbandonò volentieri a un giovane e brillante maestro di Grenoble il problema dei geroglifici. Persuaso fin dagli anni dell'adolescenza di esser l'uomo destinato a trovarne la soluzione, J.-F. Champollion (1i90-1832) Si era preparato al compito familiarizzandosi con tutte le fonti classiche e acquistando una completa padronanza del copto. Per lungo tempo la soluzione gli sfuggì, e a un anno dalla sua immortale scoperta era ancora in dubbio se, dopo tutto, i geroglifici non fossero altro che una scrittura puramente simbolica. Akerblad aveva letto secondo il sistema alfabetico il nome in demotico di Tolomeo, e Champollion confrontando i segni demotici con quelli all'interno del cartiglio aveva dimostrato, superando le proprie incertezze, che anche i geroglifici potevano almeno in qualche caso essere alfabetici.

La conferma decisiva venne da un obelisco che secondo ogni apparenza aveva avuto un tempo come base un blocco di pietra coperto d'iscrizioni greche in onore di Tolomeo Fiscone e delle due Cleopatra. Sia la base che l'obelisco erano stati portati in Inghilterra nel 1819 per adornare il parco di W. J. Bankes a Kingston Lacy nel Dorset. Nel 1821 era stata eseguita per ordine del proprietario una riproduzione litografica delle iscrizioni greche e geroglifiche, e nell'anno seguente una copia venne in mano a Champollion. Qui egli vide che il cartiglio di Tolomeo era accompagnato da un altro che non poteva non essere quello di Cleopatra, poiché in entrambi comparivano nella giusta posizione i geroglifici di P, O ed L. E vero che il segno T era diverso nei due casi, ma questo si poteva facilmente spiegare con la teoria dell'omofonia. I due cartigli fornirono a Champollion tredici caratteri alfabetici per dodici suoni. Armato di questi elementi egli non tardò a individuare i nomi di Alessandro, Berenice, Tiberio, Domiziano, Traiano, oltre ai titoli imperiali di Autocrator, Caesar e Sebastos, tutti scritti in caratteri geroglifici.

Era così risolto il problema dei cartigli grecoromani, ma restava quello dei cartigli appartenenti a epoche più antiche. Il 14 settembre 1822 Champollion ricevette da un architetto alcune riproduzioni di bassorilievi trovati nei templi egizi che finirono per dissipare ogni dubbio. Alla fine di un cartiglio egli scopri ripetuto due volte il segno che secondo il suo alfabeto doveva rappresentare la S e, separato da un enigmatico geroglifico, il cerchio del "sole", in copto RE. Mentre leggeva "RE-?-s-s-" gli balenò alla mente il nome regale di Ramessés o Rameses.

La possibilità si mutò in certezza pochi istanti dopo quando s'imbatté in un altro cartiglio che recava all'inizio l'ibis Thoth, e, fra questo e una s, il segno ch'egli supponeva fosse una M. Doveva certo trattarsi del nome di Tuthmósis (nei vecchi libri spesso erroneamente reso con Thothmes) appartenente alla XVIII dinastia manetoniana. Una conferma fu trovata nella stele di Rosetta dove l'enigmatico segno faceva parte del gruppo geroglifico corrispondente alla parola "compleanno" in greco, che immediatamente suggerì il vocabolo copto misi o mose, "dar vita".

Da quel momento ogni giorno portò nuovi risultati. Sicuro che non ci fosse oramai più ragione di tener celate le proprie scoperte, il 29 settembre Champollion lesse all'Accademia di Parigi la sua memorabile Lettre à M. Dacier nella quale, secondo le sue abitudini, non faceva cenno dei nomi di Ramessés e Tuthmòsis, riservandosi di raccontare come fosse giunto a decifrarli nel mirabile Précis du système hiéroglyphique pubblicato nel 1824. Lunghi soggiorni a Torino e in Egitto riempirono buona parte della sua breve esistenza. Prima di morire all'età di quarantun anni era riuscito a decifrare il senso generale della maggior parte delle iscrizioni storiche. Il gran merito dell'impresa di Champollion sta meno nella scoperta iniziale che nell'applicazione straordinaria ch'egli seppe farne.

Per poter utilizzare in pieno la chiave così fornita urgevano altro materiale e riproduzioni migliori; e l'entusiasmo suscitato dalla scoperta assicurò e l'uno e l'altro. Champollion stesso diede l'esempio: il viaggio in Egitto in compagnia del professore italiano Rosellini forni un'imponente messe di disegni pubblicati in grossi volumi in folio. Una spedizione prussiana guidata dal sommo erudito R. Lepsius (1810-84) oscurò tutti i lavori precedenti con i dodici enormi volumi del Denkmàler (1849-59). Frattanto l'Inghilterra non era rimasta in ozio; i nomi più importanti sono quelli di R. Hay di Linplum, J. Burton e J. G. Wilkinson; questi, lavorando ora uniti, ora in società con altri colleghi, misero insieme impareggiabili raccolte di copie di rilievi, pitture e iscrizioni tanto più preziose oggi che molti degli originali sono andati perduti o hanno subito gravi danni. Del lavoro compiuto fra il 182o e il 1840 solo una piccola parte venne pubblicata, ma le riproduzioni di Wilkinson fornirono le illustrazioni per il suo celebre libro Manners and Customs of the Ancient Egyptians (1837). Quello stesso periodo vide il costituirsi delle grandi collezioni di reperti egizi del British Museum, del Louvre, e di Torino, Firenze, Bologna e Leida, per citare solo le più importanti. Fornitori erano i consoli generali francese, inglese e svedese, B. Drovetti, H. Salt e Anastasi, ma gli scavi da loro sfruttati o fatti eseguire assomigliavano più che altro a saccheggi, anche se non si può condannarne gli autori per aver trascurato norme scientifiche ancora inesistenti. Scavi su più vasta scala e con intenti più sistematici furono diretti a partire dal 1850 dal francese A. Mariette (1821-81), alla cui influenza presso il chedivé Said Pascià si deve la fondazione del museo di Bulaq (nome di un sobborgo del Cairo) (1858) che in seguito doveva trasformarsi nel grande museo del Cairo, ora centro d'attrazione per tutti i visitatori dell'Egitto. Gli scavi scientifici furono però lenti a cominciare e solo nel 1884 F. Petrie, forse il più fortunato di tutti gli esploratori di tombe, introdusse metodi più rigorosi e diede il buon esempio, purtroppo poco seguito, d'informare rapidamente il pubblico dei risultati conseguiti. Sarebbe tedioso per il lettore, e sleale verso i non citati, elencare tutti i principali scavatori più recenti, ma non si possono passare sotto silenzio i nomi degli americani G. Reisner ed H. Winlock, e quello dello scopritore della tomba di Tutankhamun, H. Carter. [Destini Incrociati - Carter e Carnavon]. L'onestà ci obbliga ad aggiungere che troppi sono gli scavi fatti, o tuttora in corso, specialmente perché i risultati non sempre vengono pubblicati o sono pubblicati male; meglio si sarebbe giovato alla nuova scienza in formazione ascoltando l'eloquente appello dell'illustre studioso F. L. Griffith (1862-1934) che nel 1889 auspicava un maggior numero di riproduzioni dei monumenti fuori terra. Si deve alla sua iniziativa se l'Egypt Exploration Fund (più tardi Society), costituito nel 1882, divise equamente fra queste due funzioni la propria attività in Egitto. L'America tardò a entrare in campo, ma si rifece ampiamente del tempo perduto. Le splendide pubblicazioni sulle tombe tebane a cura del Metropolitan Museum of Art di New York (in gran parte merito della devota opera dell'inglese Davies) stanno per essere superate in importanza dai lavori eseguiti nei templi stessi dall'Oriental Institute dell'Università di Chicago, la grande organizzazione archeologica dovuta alla lungimiranza di J. H. Breasted (1865-1935) e alla generosità di J. D. Rockefeller jr.

In Europa molti capaci studiosi proseguirono l'opera iniziata da Champollion. In un saggio pubblicato nel 1837 R. Lepsius ridusse finalmente al silenzio le voci degli scettici che ancora ponevano in dubbio la veridicità della decifrazione. I primi ricercatori in questo campo furono S. Birch (1813-85) ed E. Hincks (1792-1866), seguiti a breve distanza di tempo da C. W. Goodwin, in Inghilterra; E. de Rougé, F.-J. Chabas e Th. Devéria, ín Francia; e, dal più grande di tutti, H. Brugsch (1827-1894), in Germania. Il rivoletto della ricerca egittologica s'ingrossava a poco a poco fino a diventare un fiume imponente tanto che oggi è impossibile per lo studioso tenersi al corrente di tutto quanto viene scritto sull'argomento, a meno di rinunciare ad ogni speranza di portare un contributo personale. Dei nomi più recenti basti ricordare quello di A. Erman (1854-1937) che, con i suoi discepoli, K. Sethe in particolare, definì con esattezza i diversi stadi della lingua egizia e pose le basi per creare una grammatica sistematica di ciascuno stadio, e il già citato F. Li. Griffith, cui l'istintivo genio di paleografo permise di decifrare alcune forme particolari delle scritture ieratica e demotica che avevano eluso tutti i precedenti tentativi.

Le università furono lente nel riconoscere la nuova disciplina. Champollion [Compendio del sistema geroglifico] fu il primo a occupare la cattedra fondata appositamente per lui al Collège de France nel 1831. Góttingen fu forse il secondo centro di studi ad avere un professore di egittologia e la scelta cadde su Brugsch (1868). L'Inghilterra rimase indietro fino a che nel 1894, in seguito a un lascito della scrittrice A. B. Edwards, non venne concessa a Petrie una cattedra all'University College di Londra. Oggi non c'è università che si rispetti che non abbia un professore o un lettore per questa materia.