L'enciclopedica Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (23-79 d. C.) è una vasta raccolta di notizie derivanti dalle opere di autori precedenti e riguardanti tutti gli oggetti materiali non prodotti dall'uomo cui intercala numerose digressioni sulle invenzioni e istituzioni umane. Naturalmente viene trattato anche l'Egitto. Plinio ha una certa importanza come esperto di geografia egiziana, seppure meno di Strabone e Claudio Tolomeo che verso il 150 d.C. pubblicò un suo Peri tes geographikis yphegeseos. Le parti di quest'opera che riguardano l'Egitto e le regioni vicine sono brevi e per lo più si limitano a un elenco dei nomi con le relative città principali e alcune delle minori. Non staremo a ricordare le altre fonti grecoromane sull'argomento, perché il lettore che s'interessa alla geografia egiziana di quei tempi troverà tutto quanto desidera nell'ammirevole libro in lingua inglese del defunto J. Ball.
Né ci dilungheremo oltre sulle notizie riguardanti gli aspetti della vita quotidiana e della storia egizia che si possono rintracciare negli scritti di vari autori greci e romani. Premesso che ci riserviamo di trattare in seguito l'importantissima opera di Manetone, passiamo alla religione, basandoci sugli scrittori classici e su quelli posteriori. A mano a mano che l'influenza greca prima, e romana poi, si affermava nella terra dei faraoni, la cultura indigena tradizionale diveniva sempre di più prerogativa della casta sacerdotale che aveva tutto l'interesse ad esaltare ed esagerare la profonda saggezza e la misteriosa sapienza degli avi. I poeti satirici, come Giovenale '(47-127 d.C.), avevano un bel farsi beffe di un popolo che adorava i gatti e i coccodrilli; molti dei migliori scrittori dell'età postaugustea continuavano a pensare che quel popolo possedesse cognizioni a loro ignote. Indebolitasi la fede nei vecchi dèi dell'Olimpo, le popolazioni di Roma e delle province dell'Impero cadevano facile preda del miraggio offerto da qualsiasi religione orientale. Il culto di Iside si diffondeva in ogni angolo dell'Impero, per quanto neppure i più devoti adoratori della dea avessero idee chiare sul suo conto. Una testimonianza assai interessante di questa loro perplessità ci viene da Plutarco di Cheronea (50-120 d. C.) nel suo trattato intitolato De Iside et Osiride. Nei primi capitoli egli narra in forma piana e scorrevole la storia di Osiride, il buon re ucciso a tradimento dal malvagio fratello Tifone (Séth) e in seguito vendicato dal figlio Horo allevato in segreto dalla madre Iside. La leggenda narrata da Plutarco, e già trattata in precedenza da Diodoro, concorda nella sostanza con quella che si può desumere dai testi egizi, sebbene si siano aggiunti molti particolari, taluni forse derivati da fonti indigene andate perdute. Ma quando lo scrittore si addentra nell'esegesi il suo inconscio imbarazzo appare evidente. Egli sottolinea il fatto che la leggenda non va presa alla lettera, e le molteplici forme sotto le quali si nasconde forse la verità, vengono paragonate ai molteplici colori dell'arcobaleno, riflessi di un unico sole. A un certo punto egli identifica Osiride con il Nilo che si congiunge alla Terra (Iside), ma è poi sopraffatto dal mare (Tifone). Oppure Osiride può essere identificato con tutti gli umori vitali, mentre Iside è la Terra, e il figlio Horo è l'umidità atmosferica stagionale del delta. O ancora, Tifone è la potenza della siccità, mentre Horo è la pioggia vittoriosa su di essa. Secondo altri, Tifone è il sole spietato, Osiride il rugiadoso chiarore lunare, e così via, un'interpretazione allegorica dopo l'altra per pagine e pagine. Non si può affermare con certezza che l'origine di tutte queste interpretazioni non sia egizia, ma nel complesso esse portano il marchio inconfondibile dell'ingegnosità speculativa dell'Occidente.
Con il diffondersi del cristianesimo le divinità pagane vennero a poco a poco bandite e Iside trovò un ultimo rifugio nell'isola di File, oltre la prima cateratta, dove il suo culto scomparve solo nel secolo V.
Ma benché la religione indigena dell'Egitto fosse ormai scomparsa, perdurava la fede nella profonda sapienza esoterica dei suoi antichi sacerdoti, e perfino la Bibbia l'incoraggiava con accenni alla saggezza dell'Egitto e ai prodigi compiuti dai suoi maghi (Esodo 7.11, 22). Si dava ancora credito alla tradizione che voleva gli antichi filosofi greci, come Talete e Pitagora, discepoli dei sacerdoti egizi.
Ma ciò che forse più di ogni altra cosa contribuì a perpetuare questi pregiudizi fu l'enigmatico aspetto dei geroglifici. Quelle rappresentazioni in miniatura di uomini e animali, piante e corpi celesti, case e arredi dovevano certo essere i simboli di profonde dottrine mistiche, dal momento che ricoprivano da cima a fondo le pareti dei grandi templi egizi. I primi scrittori greci mantennero un curioso silenzio sulla natura dei geroglifici, e solo Diodoro (III 4) cercò di spiegarli affermando che quei segni non avevano valore fonetico ma erano decisamente allegorici. Cheremone, precettore di Nerone, segui il suo esempio in un libro di cui ci rimane solo un breve passo. Comunque, il vero scoglio per tutti i decifratori che dovevano seguire fu il trattato sui geroglifici di un certo Orapollo, erudito egiziano del secolo V d.C. Eccone un esempio: "Come essi (gli Egizi) indicano l'anima."
"Inoltre, il Falco sta a indicare l'anima, dal significato del suo nome; infatti fra gli Egizi il falco è chiamato Baieth, e questo nome scomposto significa anima e cuore, perché la parola Bai vuoi dire anima, ed eth cuore; e il cuore secondo gli Egizi è il ricettacolo dell'anima, cosicché, ricomposto nei suoi elementi, il nome significa "anima nel cuore".
Vi è una certa parte di verità nel brano citato; nella scrittura egizia il vocabolo anima veniva infatti scritto con un segno che rappresentava un uccello; ma l'interpretazione allegorica è del tutto erronea e mette il decifratore sulla strada sbagliata. Un passo nell'opera del colto presbitero Clemente Alessandrino (150-215 d.C.) sembrerebbe testimoniare una più esatta valutazione della natura dei geroglifici, ma le espressioni usate dall'autore sono troppo ambigue per frenare le fantasiose teorie della maggioranza.
Nel secolo mentre le tenebre del Medioevo si addensavano sull'Europa, l'Egitto cadeva nelle mani degli invasori maomettani. Solo dopo il Rinascimento vi fu un risveglio d'interesse per i suoi antichi monumenti. La maggior parte dei viaggiatori che si avventuravano in Egitto avevano come meta la Terrasanta e pochi si spingevano oltre la zona del Cairo. Fra i più audaci divenne di moda recarsi fino a Saqqara dove corrompevano gl'indigeni per farsi disseppellire qualche mummia e pochissimi ritornavano in patria con qualche preziosa e inedita informazione. Tra di essi il più importante fu forse il gesuita Cl. Sicard (1677-1726), il primo esploratore relativamente moderno che raggiunse Aswan. Egli riscoprì il luogo dove sorgeva Tebe e affermò di aver visitato ventiquattro templi e oltre cinquanta tombe scavate nella roccia e adorne di dipinti o sculture; disgraziatamente non pubblicò gran cosa e il suo maggior contributo è la mappa di cui si servi in seguito J.-B. B. d'Anville per la sua carta geografica dell'Egitto apparsa nel 1766.
Fra i più famosi libri di viaggio possiamo citare quelli del danese Fr. L. Norden (1708-1742) e degli inglesi R. Pococke (1704-65) e J. Bruce (1730-94); ma già molto prima era stata stampata una monografia sulle piramidi di tono schiettamente scientifico, la piramidografia dell'astronomo oxoniense J. Greaves (1646). La maggior parte di questi libri erano il-lustrati ma le incisioni presentavano grossolane inesattezze. Di grande utilità per gli studiosi che non potevano recarsi di persona in Egitto furono i manoscritti copti che incominciarono ad affluire in Europa dagli inizi del secolo XVII. Un certo numero di questi che si era procurato in Egitto Pietro della Valle capitarono in mano al colto gesuita Athanasius Kircher il cui libro intitolato Lingua Aegyptiaca Restituta (1643) fu il punto di partenza da cui presero le mosse gli studiosi di quest'ultima fase della lingua egizia scritta nell'alfabeto greco con l'aggiunta di pochi altri caratteri. Senza una buona conoscenza del copto la decifrazione dei geroglifici non avrebbe fatto in seguito così rapidi progressi. Non c'è che da rimpiangere che il Kircher, per altri lati davvero meritorio, non abbia saputo trattenersi dallo sfrenare la propria fantasia in cervellotiche interpretazioni dei geroglifici. Per darne un esempio, il nome del faraone Apriés scritto su di un obelisco romano significa per Kircher " che "la benevolenza del divino Osiride deve esser procurata per mezzo di cerimonie sacre e della catena dei Geni, onde possano ottenersi i benefici del Nilo". Nello stesso tempo questo grande erudito, come fecero poi P. E. Jablonski (1693-1751), a lui di poco posteriore, e G. Zoega alla fine del secolo XVIII, raccolse in ponderosi volumi tutte le notizie e ipotesi divulgate dai suoi predecessori. Scarsi furono gli ulteriori progressi fino a che il paese stesso non si dischiuse agli studiosi e fu possibile scoprire la chiave delle antiche scritture.
Questa, in breve e con molte omissioni, era nell'età prenapoleonica l'egittologia, se si può applicare questo termine a un ramo dello scibile ancora totalmente acritico e non scientifico. La nuova era ebbe inizio con la spedizione di Bonaparte in Egitto (1798) e con la scoperta della stele trilingue di Rosetta [L’Egitto rivuole indietro la Stele di Rosetta], avvenuta l'anno seguente, sulla quale era inciso un decreto del consiglio dei sacerdoti in onore di Tolomeo V Epifane promulgato nell'anno 196 a.C. Il testo greco e il demotico erano quasi integri, alquanto frammentario il geroglifico. Fu subito chiaro che questo prezioso documento offriva un'occasione, quale mai si era presentata in passato, per decifrare la lingua. La storia del successo finale è già stata narrata più volte. Il primo passo fu compiuto dal diplomatico svedese Akerblad che concentrò la propria attenzione sull'esame dell'iscrizione in corsivo immediatamente al di sotto di quella geroglifica, riconoscendo in essa il demotico di cui aveva parlato Erodoto (II 36). Dopo esser riuscito a localizzare i nomi propri confrontandola con l'iscrizione greca, individuò circa la metà delle lettere dell'alfabeto e si convinse che si trattava della lingua che in seguito si trasformò in quella copta.