L’oasi di Farafra

Uno degli incontri più significativi di Harding King con i senussi avvenne a Dakhla, dove prese il tè insieme allo sceicco Mohamed el Mawhub, un libico che era stato mandato nell’oasi per convertire gli abitanti del luogo. L’esploratore trascorse una notte nella fattoria dello sceicco, nel piccolo villaggio fondato da Ei Mawhub. Harding King si sentiva in soggezione di fronte allo sceicco. L’autorità espressa con modi calmi, la profonda cultura e il fare cerimonioso che caratterizzavano Ei Mawhub sembravano il simbolo della potenza dei senussi. Un popolo che poco tempo dopo affrontò una gigantesca resa dei conti militare con l’impero britannico e con quello italiano, che avevano accerchiato il suo territorio dall’Egitto e dalla Libia. Lo sceicco incoraggiò persino Harding King a trasferirsi nella sua zawiya per imparare l’arabo (“Confesso che ero tentato”, ammise l’inglese). Il potere dei senussi, però, era vicino al declino. Solo pochi anni dopo il pomeriggio passato da Harding King con lo sceicco, i soldati britannici irruppero nei villaggio e chiesero la sua resa. Il vecchio capo, però, era già fuggito al Cairo. Per rappresaglia i soldati gli incendiarono la casa e arrestarono i suoi figli. Ahmed Idris Mohammed el Mawhub, 69 anni, è il pronipote dello sceicco e uno dei pochi abitanti dell’oasi per cui la parola senussi significhi ancora qualcosa. Negli anni venti, quando i figli dello sceicco tornarono nel villaggio fondato dal padre, il movimento senussi era stato schiacciato militarmente dai suoi nemici, e la devozione per le sue dottrine religiose si era indebolita. “Siamo l’unica testimonianza rimasta di quell’epoca. Le persone non hanno più bisogno dei senussi, e non pensano più a noi. I tempi sono cambiati, oggi siamo egiziani e parlare di senussi è un anacronismo”, dice Ahmed contemplando la città del suo bisnonno, dove oggi vivono z.8oo persone. Eppure, tra chi è abbastanza vecchio da ricordare i racconti sui senussi, resta un fondo di nostalgia per quegli autoproclamati difensori della purezza del deserto e del suo popolo. Per capire il motivo di questo sentimento bisogna andare a Farafra, l’oasi più isolata, l’ultima a essere coinvolta dai mastodontici piani di ripopolamento del governo. Quando arrivò qui cento anni fa, Harding King si trovò circondato da abitanti che definì “burberi e scontrosi”. “Essendo Farafra l’oasi egiziana meno conosciuta, l’arrivo di un europeo è un evento di una tale rarità che gli indigeni hanno evidentemente deciso di dare il meglio di sé”, scrisse Harding King. Guardandosi intorno dalle torri in mattoni di fango di Qasr Farafra, all’epoca unico villaggio della zona, Harding King non poté vedere altro che lo stupefacente vuoto di un avvallamento lungo duecento chilometri. Oggi il panorama è molto diverso. Dalla valle del Nilo stanno arrivando migliaia di coloni incoraggiati dal pacchetto governativo che, oltre alla possibilità di comprare una casa con un mutuo senza interessi, concede gratuitamente fino a venti feddan (8,4 ettari) di terra, acqua ed elettricità per cinque anni e ogni mese una fornitura gratuita di farina, formaggio, zucchero e riso. La depressione ora non colpisce per il suo vuoto, ma per la sua attività. In tutta la zona vengono scavati nuovi pozzi, e si stanno insediando nuove comunità. L’oasi somiglia più a una città californiana dell’epoca della corsa all’oro, che ai ricordi di Harding King: “Un posto pieno di povertà con una popolazione che non supera le 550 persone”. I nuovi coloni non sono né europei né abitanti del deserto. Arrivano dalla valle del Nilo, che si estende da Alessandria d’Egitto ad Assuan, e hanno avuto un impatto profondo sulla vita dell’oasi. Abdel Raba Abu Noor nacque nel 1929 al Cairo e fu portato a Qasr Farafra quando aveva appena due anni. Nel 1952 prima della rivoluzione del generale Gamal Abdel Nasser (che Noor seguì dall’unica radio del villaggio) i soli estranei che aveva conosciuto erano i mercanti che incontrava con suo padre tre volte all’anno durante la spedizione a dorso di cammello per vendere datteri ad Asyut, un viaggio che durava dieci giorni. “All’epoca questo era l’unico villaggio dell’oasi e noi abitanti non contavamo niente. Oggi arrivano tutti, perfino i presidenti vengono a trovarci”. Abu Noor parla con orgoglio del fatto che negli anni la sua città è diventata sempre più importante, dopo essere stata ignorata a lungo dal governo. Il centro del villaggio può sembrare una desolata area industriale, ma intorno c’è l’atmosfera delle periferie appena costruite: i nuovi arrivati cominciano a mettere radici e ad abbellire le loro case, mentre i figli esplorano le stradine polverose in bicicletta. Seduto nel suo salotto dalle pareti grigie, davanti a un ritratto del presidente Hosni Mubarak, Abu Noor insiste che, nonostante l’imprevedibile mescolanza sociale, la vita del villaggio è tranquilla. “Certo, le cose sono cambiate, ma in meglio. Ci sono pochissimi conflitti”. I vecchi abitanti esprimono opinioni positive sull’immigrazione, anche se in fondo la cosa sembra lasciarli indifferenti. Ma quando si affrontano problemi specifici — dispute sulla terra, piccoli furti, liti tra le famiglie — l’ostilità nei confronti dei nuovi arrivati viene rapidamente a galla. Nel villaggio di Mawhub, a 320 chilometri di distanza, Osama Ahmed Mohammed, un pronipote del vecchio sceicco senussi, è convinto che i problemi del deserto Occidentale sono dovuti all’arrivo degli “egiziani” previsto dal progetto di ripopolamento della zona. “I problemi sono arrivati con loro, perché le tradizioni cambiano e quindi cambia anche la fiducia reciproca all’interno di una comunità. La nostra storia comune è fondamentale. E se si perde questa si perde anche il resto”, afferma Mohammed. Più che un’esplicita intolleranza verso chi viene da fuori, ciò che caratterizza il nuovo deserto Occidentale è l’insicurezza sull’identità, sia tra i vecchi abitanti sia tra coloro che si sono trasferiti solo di recente. Cento anni fa Harding King si accorse di questa insicurezza osservando l’abilità dei contadini delle oasi nel mescolare le tradizioni popolari pagane con la dottrina islamica, e nell’adattare le gerarchie politiche locali ai diktat del colonialismo. Oggi c’è un ulteriore elemento di incertezza: i nuovi insediamenti che sorgono dalla sabbia, costruiti dal nulla. Queste sono province di frontiera dove le famiglie provenienti da tutto l’Egitto devono far nascere delle comunità unite e dotate di personalità partendo da zero. Abu Minqar ha il discutibile onore di essere uno degli insediamenti più isolati di tutto l’Egitto. Questa piccolissima oasi, la cui prima mappa fu disegnata proprio da Harding King, fu il teatro della resa dei conti finale tra l’esploratore e i suoi nemici senussi. Oggi la nuova città è un microcosmo dove sono presenti tutti gli aspetti, positivi e negativi, della profonda trasformazione del deserto. Nel 1987 Abu Minqar non aveva abitanti. Oggi ci vivono quattro- mila persone, arrivate in parte tramite un programma governativo per assegnare nuovi appezzamenti agli egiziani rimasti “senza terra”. Si tratta di quei contadini che, a causa delle suddivisioni previste dal sistema ereditario islamico, si erano ritrovati proprietari di campi talmente piccoli da non poter essere coltivati. Altre persone, invece, sono arrivate tramite un programma del presidente egiziano Hosni Mubarak che incentiva i laureati delle università statali a costruirsi una nuova vita nella nuova valle. È solo quando sorge il sole che ci si rende conto di quanto sia remoto questo pezzo di deserto. Ascoltare il canto dei galli e il raglio degli asini mentre centinaia di chilometri quadrati di deserto emergono dall’oscurità è un’esperienza inquietante. Altrettanto inquietante è assistere all’adunata mattutina di una delle tre nuove scuole della città: i ragazzi, in fila su tre lati di un campetto polveroso, intonano slogan nazionalistici agli ordini di un tredicenne ritto sull’attenti di fronte alla bandiera egiziana. I canti risuonano colmi di entusiasmo, per poi essere inghiottiti dal silenzio e dall’immobilità circostanti. Gli studenti non sembrano annoiati o disinteressati alla cerimonia. Sono zelanti perché sanno di essere la prima generazione nata in questa terra un tempo deserta, la nuova frontiera dello stato egiziano, lontanissima dalle città della valle del Nilo da cui vengono i loro genitori.

Ali Abduha trentacinque anni ed è titolare di un negozio di moto nel villaggio. I suoi genitori vengono dall’Alto Egitto, ma lui è nato nell’oasi di Dakhla e afferma che per la prima volta da quando si è trasferito comincia ad avere qui ad Abu Minqar le sue radici. “Ora siamo fieri di dire che siamo di Abu Minqar”, dice. Molte cose sono cambiate da quando arrivò Harding King, che trovò solo qualche pietra disposta approssimativamente in direzione della Mecca. Ma nonostante i nuovi pozzi e i canali di irrigazione, alcune domande restano senza risposta. Lo scetticismo nei confronti del governo resta alto anche di fronte al generoso pacchetto di sussidi offerti ai nuovi arrivati. “Il governo supplica le persone divenire qui, ma poi fornisce solo le infrastrutture minime in tutti i settori, dai servizi sociali all’agricoltura”, afferma Tina Jaskolski, ricercatrice della American University presso il Desert development centre del Cairo, che segue un progetto nel villaggio. “L’acqua corrente arriva solo per tre ore al giorno, e questo è uno degli ultimi posti in Egitto che non dispone di elettricità ventiquattr’ore al giorno. Qui gli abitanti sono talmente distanti dai centri politici locali, figuriamoci dal Cairo, che si sentono abbandonati”. Molti arrivano ad Abu Minqar decisi a far rivivere lo spirito della frontiera. “Arrivano con l’intenzione di costruirsi una nuova vita e di contribuire al successo della comunità”, afferma Jaskolski. Dopo qualche anno, però, sono costretti ad andarsene a causa della fatica che si fa a vivere in questo strano pezzo di Egitto: un posto che pochi conoscono, ma che è considerato il futuro del paese.