di Jack Shenker, The National
Sulle orme dell’esploratore W. J. Harding King, che cent’anni fa si avventurò nel deserto egiziano a ovest della valle del Nilo. Dove oggi il governo egiziano vuole attirare i cittadini per trovare una soluzione all’incremento demografico.
Nel cuore dell’oasi di Dakhla c’è un albero che, secondo alcuni abitanti, possiede un’anima. Lo chiamano albero dello sheikh Adam. Per secoli è rimasto al centro di un luogo che un tempo era considerato tra i più inospitali del pianeta: un’area arida che si estende per più di un milione e mezzo di chilometri quadrati.

L’oasi dista centinaia di chilometri dalla valle del Nilo, a est, e centinaia di chilometri dal confine libico, a ovest. Scrutando l’orizzonte in entrambe le direzioni, dalla piccola collina su cui si trova l’albero, difficilmente si vedrà qualcosa al di là delle dune di sabbia che si susseguono senza sosta, e che in alcuni casi sono alte fino a 150 metri. Uno scienziato britannico che raggiunse questo posto nel 1909 affermò che quest’albero è il simbolo di tutto ciò che c’è di magico nel deserto, “una terra in cui gli ifrit, i ghoul, i jinn e tutte le altre creature della superstizione indigena fanno parte della vita di ogni giorno, e dove oasi perdute e città incantate si distendono nella sabbia”. A distanza di un secolo, l’albero è ancora lì. Ma è il simbolo di una realtà diversa: è circondato da un recinto d’acciaio alto tre metri e oscurato da una nuova torre per telecomunicazioni rossa e bianca. Questa acacia magica dal 2009 testimonia una delle più profonde trasformazioni ambientali del pianeta. Oggi si trova nelle vicinanze di una nuova base militare, una delle centinaia costruite per fare in modo che il deserto sia sempre più parte integrante dello stato egiziano moderno. Fino a poco tempo fa questa era una terra di leggende: qui fu mandato in esilio Seth, l’antico dio egizio del caos, qui cinquantamila indomabili soldati del re persiano Cambise furono inghiottiti da una tempesta di sabbia e scomparvero per sempre. Ora, casa dopo casa, strada dopo strada, città dopo città, si sta lentamente trasformando nel più improbabile strumento per affrontare la rapida crescita demografica del paese. Grazie a una miscela tecnologica fatta di nuove cisterne, costose stazioni di pompaggio e canali di irrigazione che si snodano per centinaia di chilometri, nei prossimi dieci anni il governo del Cairo conta di trasformare oltre un milione di ettari di suolo arido in terra coltivabile e, nello stesso tempo, di dare una casa a quasi 19 milioni di egiziani. L’obiettivo è far nascere dalla sabbia una valle brulicante di vita, che come la fenice rinasca dalle proprie ceneri.

È il più imponente progetto edilizio egiziano dal tempo delle piramidi. Costerà miliardi di dollari, ma secondo molti ricercatori è talmente ambizioso da risultare irrealizzabile. Eppure il progetto è partito e sta rendendo irriconoscibile il deserto inviolato in cui cento anni fa si inoltrò lo scienziato britannico. Si chiamava W.J. Harding King e l’oggetto della sua ricerca era il deserto Occidentale (o Libico), che forma il settore orientale del Sahara e si estende tra l’Egitto, la Libia e il Sudan. Nel centenario della sua spedizione ho seguito le sue orme, per visitare una regione che sta cambiando rapidamente. “Il romanticismo è solo il prodotto degenerato dell’immaginazione e dell’ignoranza. Ci sono pochi luoghi al mondo come il deserto, dove si deve affrontare la dura e fredda realtà”, scrisse Harding King quando cominciò il resoconto del suo viaggio tra le dune. Idealismo e fantasia non erano certo caratteristiche di questo avventuriero che studiò a Cambridge, e nelle 336 pagine del libro non c’è spazio per la prosa melensa che secondo Harding King era tipica di tante altre descrizioni del deserto. Il suo resoconto, così come il viaggio su cui è basato è alimentato piuttosto dal freddo distacco scientifico e dall’ideologia coloniale, e concede raramente spazio alla retorica. Ma neppure questo compassato signore inglese riuscì a nascondere le sue paure la notte prima di lasciare le comodità di Kharga, una piccola oasi 210 chilometri a ovest di Luxor, per inoltrarsi nell’ignoto. “Mi ero imbarcato in un disperato tentativo di risolvere l’enigma delle sabbie del ‘paese del Diavolo’. Era una prospettiva spaventosa”, scrisse a proposito di quell’ultima notte. Aveva quarant’anni quando cominciò la sua missione di tre anni nel deserto Occidentale, su ordine della Royal Geographic Society di Londra, di cui era membro. Apparentemente il compito di Harding King consisteva nel catalogare le dune di sabbia, cosa che aveva già fatto in altre zone dell’Africa sahariana, ma la vera finalità era aggiungere gloria all’impero. In passato quell’area era stata affrontata da altri europei, compreso il grande geografo tedesco Friedrich Rohlfs, ma nessuno di loro era riuscito ad attraversare completamente “l’invalicabile” oceano di dune e a raggiungere l’oasi libica di Al Khofra (Kufra). Harding King decise di partecipare alla sfida quando stava finendo l’età dell’oro degli esploratori europei nei cosiddetti angoli nascosti dell’Africa. Sullo sfondo arrivavano segnali che annunciavano la prima guerra mondiale. La sua spedizione nel deserto occidentale fu costellata di eventi drammatici, difficoltà e tradimenti. L’episodio più grave fu quando Harding King scoprì che la carovana dei suoi servitori era composta da agenti di una setta islamica che voleva ostacolare la spedizione. Le sue osservazioni sono piene di luoghi comuni di stampo eurocentrico. Eppure offrono ancora oggi un’interessante descrizione di questo angolo di mondo che sta cambiando rapidamente.


Invasioni straniere

Nel 1909 il deserto Occidentale era un’area molto distante, fisicamente e metaforicamente, dalla valle del Nilo, caratterizzata da ritmi frenetici e da una forte presenza dello stato. Oggi è il contrario: ogni settimana la valle del Nilo si avvicina sempre di più al deserto, mano a mano che prende corpo il progetto governativo al-Wadi alGedid (nuova valle) e che si sviluppa l’apparato di uno stato prima assente. Il progetto è una risposta ambiziosa alla drammatica domanda a cui deve rispondere il più grande paese del mondo arabo: che fare del milione di cittadini che ogni nove mesi si aggiunge al conto della popolazione? Come nutrirli, visto che il granaio del paese — il delta del Nilo, una delle aree più fertili del pianeta — è già sfruttato fino allo stremo e inoltre sta subendo l’erosione causata dell’innalzamento del livello del mare? Percorrendo le piste battute da Harding King cento anni fa, si scopre che le dune quasi invalicabili sono state sostituite da posti di blocco, anch’essi invalicabili, presidiati da poliziotti sudati che sfoggiano pesantissimi maglioni cachi. Lungo la strada i piloni punteggiano il paesaggio. Quasi tutti gli insediamenti esibiscono un’antenna telefonica a energia solare, come quella che incombe sull’albero dello sheikh Adam. Gli anziani abitanti delle oasi ancora si riferiscono agli egiziani della valle del Nilo chiamandoli “stranieri”, ma lo stato è arrivato, ed è qui per restarci. Nel mondo moderno e connesso del deserto Occidentale non c’è più molto spazio per gli alberi che possiedono un’anima. Viene la tentazione di definire gli abitanti storici delle oasi - una mescolanza di discendenti delle tribù tebu, tuareg e berbere, e di beduini arabi originari del Golfo - in base a un luogo comune: quello di una comunità che combatte per mantenere la propria indipendenza mentre lo stato s’impone con il pugno di ferro. Ma la realtà è molto più complessa. Come scoprì anche Harding King, le comunità del deserto hanno sempre affrontato le invasioni straniere già all’epoca dei faraoni, quando le cinque oasi di Dakhla furono coltivate per la prima volta. Questa terra è stata attraversata dalle piste carovaniere dei mercanti di schiavi, dalle guarnigioni romane e anche dai fili spinati voluti da Mussolini. Si tratta di una zona abituata alle influenze esterne, e i suoi abitanti rappresentano il frutto di un processo dinamico di interazione con il resto del mondo. Per quanto possano essere intense le attuali ondate migratorie, l’eterna dialettica di ostilità e integrazione con lo straniero non è affatto nuova. Nel 1909 Harding King si ritrovò improvvisamente in questa dinamica a causa dei suoi rapporti con i senussi, “dervisci il cui carattere (...) era estremamente intransigente nei confronti dei non maomettani”. Il geografo era affascinato e confuso di fronte a questi musulmani osservanti che non fumavano e costruivano monasteri di mattoni bianchi (zawiya) nella sabbia - e che alla fine stavano quasi per ammazzarlo. Come molti altri esploratori che avevano attraversato la zona prima di lui, Harding King considerava le persone che vivevano nel deserto come puramente accessorie rispetto al suo grandioso progetto, e le catalogava con la stessa impassibilità che poteva avere per le diverse specie di cammelli o per i vari campioni di roccia. Sentendosi spinto da una sorta di diritto divino all’esplorazione, non gli venne mai in mente che coloro che occupavano questo vasto spazio non condividessero il suo desiderio di esaminarli uno a uno e di pubblicare i risultati di queste ricerche sulle prestigiose riviste londinesi. Perciò non colse il fascino dei senussi, ignaro com’era della gratitudine dei locali verso questi guerrieri che combattevano per cacciare dal deserto gli europei, soldati o esploratori che fossero.


L’oasi di Farafra

Uno degli incontri più significativi di Harding King con i senussi avvenne a Dakhla, dove prese il tè insieme allo sceicco Mohamed el Mawhub, un libico che era stato mandato nell’oasi per convertire gli abitanti del luogo. L’esploratore trascorse una notte nella fattoria dello sceicco, nel piccolo villaggio fondato da Ei Mawhub. Harding King si sentiva in soggezione di fronte allo sceicco. L’autorità espressa con modi calmi, la profonda cultura e il fare cerimonioso che caratterizzavano Ei Mawhub sembravano il simbolo della potenza dei senussi. Un popolo che poco tempo dopo affrontò una gigantesca resa dei conti militare con l’impero britannico e con quello italiano, che avevano accerchiato il suo territorio dall’Egitto e dalla Libia. Lo sceicco incoraggiò persino Harding King a trasferirsi nella sua zawiya per imparare l’arabo (“Confesso che ero tentato”, ammise l’inglese). Il potere dei senussi, però, era vicino al declino. Solo pochi anni dopo il pomeriggio passato da Harding King con lo sceicco, i soldati britannici irruppero nei villaggio e chiesero la sua resa. Il vecchio capo, però, era già fuggito al Cairo. Per rappresaglia i soldati gli incendiarono la casa e arrestarono i suoi figli. Ahmed Idris Mohammed el Mawhub, 69 anni, è il pronipote dello sceicco e uno dei pochi abitanti dell’oasi per cui la parola senussi significhi ancora qualcosa. Negli anni venti, quando i figli dello sceicco tornarono nel villaggio fondato dal padre, il movimento senussi era stato schiacciato militarmente dai suoi nemici, e la devozione per le sue dottrine religiose si era indebolita. “Siamo l’unica testimonianza rimasta di quell’epoca. Le persone non hanno più bisogno dei senussi, e non pensano più a noi. I tempi sono cambiati, oggi siamo egiziani e parlare di senussi è un anacronismo”, dice Ahmed contemplando la città del suo bisnonno, dove oggi vivono z.8oo persone. Eppure, tra chi è abbastanza vecchio da ricordare i racconti sui senussi, resta un fondo di nostalgia per quegli autoproclamati difensori della purezza del deserto e del suo popolo. Per capire il motivo di questo sentimento bisogna andare a Farafra, l’oasi più isolata, l’ultima a essere coinvolta dai mastodontici piani di ripopolamento del governo. Quando arrivò qui cento anni fa, Harding King si trovò circondato da abitanti che definì “burberi e scontrosi”. “Essendo Farafra l’oasi egiziana meno conosciuta, l’arrivo di un europeo è un evento di una tale rarità che gli indigeni hanno evidentemente deciso di dare il meglio di sé”, scrisse Harding King. Guardandosi intorno dalle torri in mattoni di fango di Qasr Farafra, all’epoca unico villaggio della zona, Harding King non poté vedere altro che lo stupefacente vuoto di un avvallamento lungo duecento chilometri. Oggi il panorama è molto diverso. Dalla valle del Nilo stanno arrivando migliaia di coloni incoraggiati dal pacchetto governativo che, oltre alla possibilità di comprare una casa con un mutuo senza interessi, concede gratuitamente fino a venti feddan (8,4 ettari) di terra, acqua ed elettricità per cinque anni e ogni mese una fornitura gratuita di farina, formaggio, zucchero e riso. La depressione ora non colpisce per il suo vuoto, ma per la sua attività. In tutta la zona vengono scavati nuovi pozzi, e si stanno insediando nuove comunità. L’oasi somiglia più a una città californiana dell’epoca della corsa all’oro, che ai ricordi di Harding King: “Un posto pieno di povertà con una popolazione che non supera le 550 persone”. I nuovi coloni non sono né europei né abitanti del deserto. Arrivano dalla valle del Nilo, che si estende da Alessandria d’Egitto ad Assuan, e hanno avuto un impatto profondo sulla vita dell’oasi. Abdel Raba Abu Noor nacque nel 1929 al Cairo e fu portato a Qasr Farafra quando aveva appena due anni. Nel 1952 prima della rivoluzione del generale Gamal Abdel Nasser (che Noor seguì dall’unica radio del villaggio) i soli estranei che aveva conosciuto erano i mercanti che incontrava con suo padre tre volte all’anno durante la spedizione a dorso di cammello per vendere datteri ad Asyut, un viaggio che durava dieci giorni. “All’epoca questo era l’unico villaggio dell’oasi e noi abitanti non contavamo niente. Oggi arrivano tutti, perfino i presidenti vengono a trovarci”. Abu Noor parla con orgoglio del fatto che negli anni la sua città è diventata sempre più importante, dopo essere stata ignorata a lungo dal governo. Il centro del villaggio può sembrare una desolata area industriale, ma intorno c’è l’atmosfera delle periferie appena costruite: i nuovi arrivati cominciano a mettere radici e ad abbellire le loro case, mentre i figli esplorano le stradine polverose in bicicletta. Seduto nel suo salotto dalle pareti grigie, davanti a un ritratto del presidente Hosni Mubarak, Abu Noor insiste che, nonostante l’imprevedibile mescolanza sociale, la vita del villaggio è tranquilla. “Certo, le cose sono cambiate, ma in meglio. Ci sono pochissimi conflitti”. I vecchi abitanti esprimono opinioni positive sull’immigrazione, anche se in fondo la cosa sembra lasciarli indifferenti. Ma quando si affrontano problemi specifici — dispute sulla terra, piccoli furti, liti tra le famiglie — l’ostilità nei confronti dei nuovi arrivati viene rapidamente a galla. Nel villaggio di Mawhub, a 320 chilometri di distanza, Osama Ahmed Mohammed, un pronipote del vecchio sceicco senussi, è convinto che i problemi del deserto Occidentale sono dovuti all’arrivo degli “egiziani” previsto dal progetto di ripopolamento della zona. “I problemi sono arrivati con loro, perché le tradizioni cambiano e quindi cambia anche la fiducia reciproca all’interno di una comunità. La nostra storia comune è fondamentale. E se si perde questa si perde anche il resto”, afferma Mohammed. Più che un’esplicita intolleranza verso chi viene da fuori, ciò che caratterizza il nuovo deserto Occidentale è l’insicurezza sull’identità, sia tra i vecchi abitanti sia tra coloro che si sono trasferiti solo di recente. Cento anni fa Harding King si accorse di questa insicurezza osservando l’abilità dei contadini delle oasi nel mescolare le tradizioni popolari pagane con la dottrina islamica, e nell’adattare le gerarchie politiche locali ai diktat del colonialismo. Oggi c’è un ulteriore elemento di incertezza: i nuovi insediamenti che sorgono dalla sabbia, costruiti dal nulla. Queste sono province di frontiera dove le famiglie provenienti da tutto l’Egitto devono far nascere delle comunità unite e dotate di personalità partendo da zero. Abu Minqar ha il discutibile onore di essere uno degli insediamenti più isolati di tutto l’Egitto. Questa piccolissima oasi, la cui prima mappa fu disegnata proprio da Harding King, fu il teatro della resa dei conti finale tra l’esploratore e i suoi nemici senussi. Oggi la nuova città è un microcosmo dove sono presenti tutti gli aspetti, positivi e negativi, della profonda trasformazione del deserto. Nel 1987 Abu Minqar non aveva abitanti. Oggi ci vivono quattro- mila persone, arrivate in parte tramite un programma governativo per assegnare nuovi appezzamenti agli egiziani rimasti “senza terra”. Si tratta di quei contadini che, a causa delle suddivisioni previste dal sistema ereditario islamico, si erano ritrovati proprietari di campi talmente piccoli da non poter essere coltivati. Altre persone, invece, sono arrivate tramite un programma del presidente egiziano Hosni Mubarak che incentiva i laureati delle università statali a costruirsi una nuova vita nella nuova valle. È solo quando sorge il sole che ci si rende conto di quanto sia remoto questo pezzo di deserto. Ascoltare il canto dei galli e il raglio degli asini mentre centinaia di chilometri quadrati di deserto emergono dall’oscurità è un’esperienza inquietante. Altrettanto inquietante è assistere all’adunata mattutina di una delle tre nuove scuole della città: i ragazzi, in fila su tre lati di un campetto polveroso, intonano slogan nazionalistici agli ordini di un tredicenne ritto sull’attenti di fronte alla bandiera egiziana. I canti risuonano colmi di entusiasmo, per poi essere inghiottiti dal silenzio e dall’immobilità circostanti. Gli studenti non sembrano annoiati o disinteressati alla cerimonia. Sono zelanti perché sanno di essere la prima generazione nata in questa terra un tempo deserta, la nuova frontiera dello stato egiziano, lontanissima dalle città della valle del Nilo da cui vengono i loro genitori.

Ali Abduha trentacinque anni ed è titolare di un negozio di moto nel villaggio. I suoi genitori vengono dall’Alto Egitto, ma lui è nato nell’oasi di Dakhla e afferma che per la prima volta da quando si è trasferito comincia ad avere qui ad Abu Minqar le sue radici. “Ora siamo fieri di dire che siamo di Abu Minqar”, dice. Molte cose sono cambiate da quando arrivò Harding King, che trovò solo qualche pietra disposta approssimativamente in direzione della Mecca. Ma nonostante i nuovi pozzi e i canali di irrigazione, alcune domande restano senza risposta. Lo scetticismo nei confronti del governo resta alto anche di fronte al generoso pacchetto di sussidi offerti ai nuovi arrivati. “Il governo supplica le persone divenire qui, ma poi fornisce solo le infrastrutture minime in tutti i settori, dai servizi sociali all’agricoltura”, afferma Tina Jaskolski, ricercatrice della American University presso il Desert development centre del Cairo, che segue un progetto nel villaggio. “L’acqua corrente arriva solo per tre ore al giorno, e questo è uno degli ultimi posti in Egitto che non dispone di elettricità ventiquattr’ore al giorno. Qui gli abitanti sono talmente distanti dai centri politici locali, figuriamoci dal Cairo, che si sentono abbandonati”. Molti arrivano ad Abu Minqar decisi a far rivivere lo spirito della frontiera. “Arrivano con l’intenzione di costruirsi una nuova vita e di contribuire al successo della comunità”, afferma Jaskolski. Dopo qualche anno, però, sono costretti ad andarsene a causa della fatica che si fa a vivere in questo strano pezzo di Egitto: un posto che pochi conoscono, ma che è considerato il futuro del paese.


Vivere in modo sostenibile

La delusione della nuova generazione di coloni non è l’unico problema che mette a rischio il progetto nuova valle. Questo suolo ha permesso la nascita di nuova vita grazie alla grande falda idrica nubiana, la più grande fonte di acqua fossile del mondo, che oggi è il motore del progetto di recupero di un territorio molto vasto. Le riserve, però, sono limitate e potrebbero esaurirsi in trecento anni. Ora l’acqua che arriva in superficie viene sprecata a causa delle condizioni dei canali di irrigazione, che disperdono metà del loro carico prima di raggiungere i campi. Il gruppo di lavoro di Jaskolski sta cercando di far capire quanto sia importante il risparmio idrico, ma è molto difficile convincere gli abitanti e il governo a non pensare solo al futuro immediato. “Anziché trasferire senza criterio più persone possibili, bisognerebbe ragionare sul tipo di comunità che si vogliono creare. Bisogna garantire dei servizi che permettano agli abitanti di vivere in modo sostenibile. E per ora non è così. Il governo sta cercando di replicare Abu Minqar ovunque. Pensa di risolvere così il problema del sovraffollamento della valle del Nilo. Se però si continua a sprecare il 50 per cento delle riserve idriche, non c’è futuro nel deserto. Se si prosciuga la falda, è finita per tutti”, spiega Jaskolski. A mano a mano che il deserto si trasforma, la presenza dello stato nella vita delle persone cambia in modo schizofrenico. Magari ad Abu Minqar lo stato è assente, ma in altre città e villaggi si sta radicando in forme del tutto nuove. Nel suo libro, Harding King racconta di piacevoli serate in compagnia di diversi omda una sorta di sindaci locali che governavano i loro piccoli feudi in relativa autonomia dal mamur, un funzionario dell’amministrazione coloniale designato dal Cairo. L’esploratore descrisse queste figure come saggi Salomoni, nepotisti corrotti o pazzi ubriaconi, Tutte persone originarie dei villaggi che amministravano. Rispondevano alle loro comunità, di cui conoscevano le sottili dinamiche. Oggi il progetto della nuova valle sta lentamente consegnando gli omda ai libri di storia, sostituiti dai posti di polizia presidiati da agenti della valle del Nilo, inviati qui dal Cairo. Insieme alla collina del cimitero turco di Budkhulu e alle dune scolpite della pista carovaniera di Ain Amur, uno dei posti più belli del deserto Occidentale è senz’altro il sito delle rovine della città vecchia di Qasr Dakhla. Quando Harding King soggiornò per diversi giorni in queste case con il tetto fatto di paglia e le porte di legno intagliato,Qasr Dakhla era un’animata città di mercato. Negli ultimi anni, chiunque potesse permetterselo ha comprato terreni nei nuovi insediamenti, lasciando i vicoli un tempo sovraffollati a un vecchio custode e alle sporadiche volpi del deserto. Saleh Hassan è l’ultimo sopravvissuto all’esodo. La sua piccola officina, dove forgia artigianalmente grandi quantità di falci per l’erba medica, usando il mantice e l’incudine, è qui da generazioni. Potrebbe essere stata visitata da Harding King, quando il proprietario era il nonno di Saleh. “Questi vicoli erano pieni di vita. Ora non c’è più nessuno”, ricorda Saleh. Anche l’antica gerarchia politica della città è scomparsa. Un secolo fa Harding King incontrò l’omda. Oggi se si visita il piccolo museo etnografico al centro della città vecchia, è possibile vedere il suo albero genealogico, da Mohammed a Mahmoud e a Kamal, il fratellastro di Fawzia Khala Hasaneen, che oggi gestisce il museo. “L’omda era un uomo di questa terra. Conosceva le nostre tradizioni. Per qualunque problema potevi sederti a tu per tu con lui e risolverlo. Non c’era nessun bisogno della polizia”, ricorda Fawzia. Oggi sì, perché dieci anni fa, quando il governo aprì un posto di polizia in città e inviò un agente dal Cairo, Kamal iii privato del titolo di omda. “Ma oggi c’è meno ordine e rispetto della legge. Gli abitanti hanno paura di rivolgersi alla polizia, così i conflitti restano irrisolti e l’armonia della comunità ne risente”, afferma Fawzia. Questo succede anche in altri villaggi, ogni volta che si eliminano le vecchie strutture del potere in nome del futuro dell’Egitto. “È cambiato tutto. Anche noi siamo cambiati”, conclude Fawzia. È questa la chiave per comprendere questo deserto di contraddizioni, dove le nostalgie e le novità vanno di pari passo. La paura che, mentre il deserto si trasforma e la tecnologia rovina il paesaggio, si perda qualcosa di autentico non è una novità. Già Harding King aveva messo in guardia contro i pericoli rappresentati per il deserto dalle auto e dagli aerei da ricognizione. Un secolo dopo, anche la guida Lonely Planet è scettica nei confronti della modernità. Gli autori non hanno da dire niente di positivo sulla città di Qasr Kharga, caso emblematico deipiani di sviluppo del governo, che nello spazio di pochi decenni si è trasformata da tranquillo villaggio in una città con quasi centomila abitanti, che però sono felici delle strade pulite, delle aiuole curate e delle comodità offerte dal progresso.


La transizione

D’altro canto, l’atteggiamento del deserto nei confronti dell’Egitto moderno non è così lineare come sottintendono sia Harding King sia Lonely Planet. Quando arriva, la modernità è contrastata e plasmata da credenze e costumi locali che risalgono a migliaia di anni fa, in modo da ricreare continuamente l’identità del deserto. Oggi gli autisti dei fuoristrada ricevono online le prenotazioni dei turisti e accettano pagamenti con carta di credito, ma molti credono ancora nella mistica oasi perduta di Zerzura, documentata anche da Harding King. Come resta forte il terrore degli ifrit, gli spiriti diabolici che entrano nel corpo di chi li calpesta.

Durante il suo viaggio, Harding King fu perseguitato dagli ifrit con tale insistenza che fu costretto a evocare un diabolico folletto inglese che lo proteggesse da quelli locali. Oggi Abdel Raba Abu Noor ricorda che a Qasr Farafra è stato recentemente convocato uno sceicco per quindici giorni di preghiera allo scopo di scacciare un ifrit da uno sfortunato abitante del villaggio. Queste credenze, cui Harding King dedicò lunghe appendici, sono parte integrante del deserto Occidentale di oggi, tanto quanto le moderne antenne telefoniche. A idealizzare la presunta autenticità del passato sono gli estranei, come lo stesso Harding King, e lo fanno solo per se stessi. Per quanto brillanti fossero le sue ricerche sui campioni di roccia e le sue classificazioni etnografiche, la vera lezione che involontariamente Harding King portò a casa è che è inutile qualunque tentativo di vedere il deserto e chi lo abita attraverso il vetro polveroso della teca di un museo.

Questo non significa che non debba essere criticata la drammatica trasformazione di questi luoghi incontaminati provocata dai grandiosi progetti governativi direcupero del territorio e ripopolamento di massa. Per ogni caso positivo, come gli oltre cento feddan (42 ettari) di coltivazioni rigogliose che oggi spuntano dalla sabbia, accanto all’antica strada percorsa da Har ding King da Farafra a Dakhla (una rigogliosa coltivazione di luppolo su una distesa di terra che solo due anni fa era sterile), ci sono anche segni del fallimento. Se da Qasr Kharga si guida per 40 chilometri in direzione sud, si possono vedere sulla sinistra le dune su cui sorgeva il villaggio di San’a. Dal terreno sbucano i cortili abbandonati di case ora sepolte dalle dune e pali telegrafici che affondano nella sabbia sempre più alta. Tutto questo è stato costruito da un governo che cerca di imporsi sul deserto, per poi scoprire che qui è il deserto ad avere la meglio. Più oltre, lungo la strada, c’è il guscio desolato del villaggio di New Baris, un progetto di Hassan Fathy, acclamato architetto egiziano, che risale agli anni sessanta. Anche New Baris oggi è circondata dalle dune: un luogo derelitto, ma anche un monumento al romanticismo e all’eccessiva ambizione in un ambiente spaventosamente privo di romanticismo.

Cento anni fa Harding King partì con l’idea di esplorare un angolo nascosto dell’Egitto. Come le persone che avevano tentato prima di lui, non riuscì a raggiungere Al Khofra. Ma fece ritorno, anche se solo per raccontare una storia: la storia di uno stile di vita pittoresco sigillato nell’Egitto del passato. Oggi, come afferma OmarAhmed Mahmoud, capo dell’ufficio turistico di Dakhla, “siamo l’Egitto del futuro”. Mentre i sogni della nuova valle si trasformano lentamente in realtà, l’unica speranza è che i popoli del deserto siano consultati e possano incidere sui cambiamenti che stanno rivoluzionando la loro terra. “Tutti dicono che qui non c’è nessuno”, dice Cassandra Vivian, autrice della più completa guida moderna di questa zona. “Dobbiamo fare in modo che i locali abbiano voce in capitolo nella transizione”. Gli anziani, quelli che hanno ascoltato le storie di prima mano sulla straordinaria avventura di Harding King nel loro deserto, concordano. “La tradizione è come il tempo: passa, e noi non possiamo fermare questo processo”, dice lo sceicco Hassan Khalafala, un uomo di 78 anni che vive nel villaggio di Rashda, a Dakhla. “Quindi no, questo non mi rende triste. Cosa ci posso fare? • cb

Jack Shenker è il corrispondente dall’Egitto del quotidiano britannico The Guardian.