di Jack Shenker, The National
Sulle orme dell’esploratore W. J. Harding King, che cent’anni fa si avventurò nel deserto egiziano a ovest della valle del Nilo. Dove oggi il governo egiziano vuole attirare i cittadini per trovare una soluzione all’incremento demografico.
Nel cuore dell’oasi di Dakhla c’è un albero che, secondo alcuni abitanti, possiede un’anima. Lo chiamano albero dello sheikh Adam. Per secoli è rimasto al centro di un luogo che un tempo era considerato tra i più inospitali del pianeta: un’area arida che si estende per più di un milione e mezzo di chilometri quadrati.

L’oasi dista centinaia di chilometri dalla valle del Nilo, a est, e centinaia di chilometri dal confine libico, a ovest. Scrutando l’orizzonte in entrambe le direzioni, dalla piccola collina su cui si trova l’albero, difficilmente si vedrà qualcosa al di là delle dune di sabbia che si susseguono senza sosta, e che in alcuni casi sono alte fino a 150 metri. Uno scienziato britannico che raggiunse questo posto nel 1909 affermò che quest’albero è il simbolo di tutto ciò che c’è di magico nel deserto, “una terra in cui gli ifrit, i ghoul, i jinn e tutte le altre creature della superstizione indigena fanno parte della vita di ogni giorno, e dove oasi perdute e città incantate si distendono nella sabbia”. A distanza di un secolo, l’albero è ancora lì. Ma è il simbolo di una realtà diversa: è circondato da un recinto d’acciaio alto tre metri e oscurato da una nuova torre per telecomunicazioni rossa e bianca. Questa acacia magica dal 2009 testimonia una delle più profonde trasformazioni ambientali del pianeta. Oggi si trova nelle vicinanze di una nuova base militare, una delle centinaia costruite per fare in modo che il deserto sia sempre più parte integrante dello stato egiziano moderno. Fino a poco tempo fa questa era una terra di leggende: qui fu mandato in esilio Seth, l’antico dio egizio del caos, qui cinquantamila indomabili soldati del re persiano Cambise furono inghiottiti da una tempesta di sabbia e scomparvero per sempre. Ora, casa dopo casa, strada dopo strada, città dopo città, si sta lentamente trasformando nel più improbabile strumento per affrontare la rapida crescita demografica del paese. Grazie a una miscela tecnologica fatta di nuove cisterne, costose stazioni di pompaggio e canali di irrigazione che si snodano per centinaia di chilometri, nei prossimi dieci anni il governo del Cairo conta di trasformare oltre un milione di ettari di suolo arido in terra coltivabile e, nello stesso tempo, di dare una casa a quasi 19 milioni di egiziani. L’obiettivo è far nascere dalla sabbia una valle brulicante di vita, che come la fenice rinasca dalle proprie ceneri.

È il più imponente progetto edilizio egiziano dal tempo delle piramidi. Costerà miliardi di dollari, ma secondo molti ricercatori è talmente ambizioso da risultare irrealizzabile. Eppure il progetto è partito e sta rendendo irriconoscibile il deserto inviolato in cui cento anni fa si inoltrò lo scienziato britannico. Si chiamava W.J. Harding King e l’oggetto della sua ricerca era il deserto Occidentale (o Libico), che forma il settore orientale del Sahara e si estende tra l’Egitto, la Libia e il Sudan. Nel centenario della sua spedizione ho seguito le sue orme, per visitare una regione che sta cambiando rapidamente. “Il romanticismo è solo il prodotto degenerato dell’immaginazione e dell’ignoranza. Ci sono pochi luoghi al mondo come il deserto, dove si deve affrontare la dura e fredda realtà”, scrisse Harding King quando cominciò il resoconto del suo viaggio tra le dune. Idealismo e fantasia non erano certo caratteristiche di questo avventuriero che studiò a Cambridge, e nelle 336 pagine del libro non c’è spazio per la prosa melensa che secondo Harding King era tipica di tante altre descrizioni del deserto. Il suo resoconto, così come il viaggio su cui è basato è alimentato piuttosto dal freddo distacco scientifico e dall’ideologia coloniale, e concede raramente spazio alla retorica. Ma neppure questo compassato signore inglese riuscì a nascondere le sue paure la notte prima di lasciare le comodità di Kharga, una piccola oasi 210 chilometri a ovest di Luxor, per inoltrarsi nell’ignoto. “Mi ero imbarcato in un disperato tentativo di risolvere l’enigma delle sabbie del ‘paese del Diavolo’. Era una prospettiva spaventosa”, scrisse a proposito di quell’ultima notte. Aveva quarant’anni quando cominciò la sua missione di tre anni nel deserto Occidentale, su ordine della Royal Geographic Society di Londra, di cui era membro. Apparentemente il compito di Harding King consisteva nel catalogare le dune di sabbia, cosa che aveva già fatto in altre zone dell’Africa sahariana, ma la vera finalità era aggiungere gloria all’impero. In passato quell’area era stata affrontata da altri europei, compreso il grande geografo tedesco Friedrich Rohlfs, ma nessuno di loro era riuscito ad attraversare completamente “l’invalicabile” oceano di dune e a raggiungere l’oasi libica di Al Khofra (Kufra). Harding King decise di partecipare alla sfida quando stava finendo l’età dell’oro degli esploratori europei nei cosiddetti angoli nascosti dell’Africa. Sullo sfondo arrivavano segnali che annunciavano la prima guerra mondiale. La sua spedizione nel deserto occidentale fu costellata di eventi drammatici, difficoltà e tradimenti. L’episodio più grave fu quando Harding King scoprì che la carovana dei suoi servitori era composta da agenti di una setta islamica che voleva ostacolare la spedizione. Le sue osservazioni sono piene di luoghi comuni di stampo eurocentrico. Eppure offrono ancora oggi un’interessante descrizione di questo angolo di mondo che sta cambiando rapidamente.