Invasioni straniere

Nel 1909 il deserto Occidentale era un’area molto distante, fisicamente e metaforicamente, dalla valle del Nilo, caratterizzata da ritmi frenetici e da una forte presenza dello stato. Oggi è il contrario: ogni settimana la valle del Nilo si avvicina sempre di più al deserto, mano a mano che prende corpo il progetto governativo al-Wadi alGedid (nuova valle) e che si sviluppa l’apparato di uno stato prima assente. Il progetto è una risposta ambiziosa alla drammatica domanda a cui deve rispondere il più grande paese del mondo arabo: che fare del milione di cittadini che ogni nove mesi si aggiunge al conto della popolazione? Come nutrirli, visto che il granaio del paese — il delta del Nilo, una delle aree più fertili del pianeta — è già sfruttato fino allo stremo e inoltre sta subendo l’erosione causata dell’innalzamento del livello del mare? Percorrendo le piste battute da Harding King cento anni fa, si scopre che le dune quasi invalicabili sono state sostituite da posti di blocco, anch’essi invalicabili, presidiati da poliziotti sudati che sfoggiano pesantissimi maglioni cachi. Lungo la strada i piloni punteggiano il paesaggio. Quasi tutti gli insediamenti esibiscono un’antenna telefonica a energia solare, come quella che incombe sull’albero dello sheikh Adam. Gli anziani abitanti delle oasi ancora si riferiscono agli egiziani della valle del Nilo chiamandoli “stranieri”, ma lo stato è arrivato, ed è qui per restarci. Nel mondo moderno e connesso del deserto Occidentale non c’è più molto spazio per gli alberi che possiedono un’anima. Viene la tentazione di definire gli abitanti storici delle oasi - una mescolanza di discendenti delle tribù tebu, tuareg e berbere, e di beduini arabi originari del Golfo - in base a un luogo comune: quello di una comunità che combatte per mantenere la propria indipendenza mentre lo stato s’impone con il pugno di ferro. Ma la realtà è molto più complessa. Come scoprì anche Harding King, le comunità del deserto hanno sempre affrontato le invasioni straniere già all’epoca dei faraoni, quando le cinque oasi di Dakhla furono coltivate per la prima volta. Questa terra è stata attraversata dalle piste carovaniere dei mercanti di schiavi, dalle guarnigioni romane e anche dai fili spinati voluti da Mussolini. Si tratta di una zona abituata alle influenze esterne, e i suoi abitanti rappresentano il frutto di un processo dinamico di interazione con il resto del mondo. Per quanto possano essere intense le attuali ondate migratorie, l’eterna dialettica di ostilità e integrazione con lo straniero non è affatto nuova. Nel 1909 Harding King si ritrovò improvvisamente in questa dinamica a causa dei suoi rapporti con i senussi, “dervisci il cui carattere (...) era estremamente intransigente nei confronti dei non maomettani”. Il geografo era affascinato e confuso di fronte a questi musulmani osservanti che non fumavano e costruivano monasteri di mattoni bianchi (zawiya) nella sabbia - e che alla fine stavano quasi per ammazzarlo. Come molti altri esploratori che avevano attraversato la zona prima di lui, Harding King considerava le persone che vivevano nel deserto come puramente accessorie rispetto al suo grandioso progetto, e le catalogava con la stessa impassibilità che poteva avere per le diverse specie di cammelli o per i vari campioni di roccia. Sentendosi spinto da una sorta di diritto divino all’esplorazione, non gli venne mai in mente che coloro che occupavano questo vasto spazio non condividessero il suo desiderio di esaminarli uno a uno e di pubblicare i risultati di queste ricerche sulle prestigiose riviste londinesi. Perciò non colse il fascino dei senussi, ignaro com’era della gratitudine dei locali verso questi guerrieri che combattevano per cacciare dal deserto gli europei, soldati o esploratori che fossero.