Tempio di Hatshepsut

Quando si visita per la prima volta l’Egitto, una delle emozioni più forti è offerta proprio dalla visione di questo tempio, dall’architettura aerea e al tempo stesso radicata nell’eternità, la cui forza celeste è sottolineata dalla verticale della parete rocciosa alla quale è addossato. Il nome di questo edificio era «meraviglia delle meraviglie». «La sua contemplazione» affermavano infatti gli egizi «supera qualsiasi altra cosa al mondo.» Nel Medio Regno qui sorgeva già un tempio, ma la regina, che affidò la direzione dei lavori al suo architetto Senmut, concepì un progetto molto originale. Deir el Bahari presenta infatti una soluzione architettonica che è unica in tutta l’arte egizia: una strada che sale dolcemente verso il tempio, costituito da terrazze sovrapposte. Hatshepsut ebbe l’immensa felicità di vedere terminato il suo tempio funerario. Thutmosi III, una volta salito al trono, fece sparire alcuni dei cartigli della regina faraone senza però distruggere l’edificio che ne onorava la memoria. Ramses II, come fece ovunque in Egitto, lasciò il segno della propria presenza anche qui, facendovi incidere il proprio nome insieme a testi che vantano le sue imprese. Sembra che il tempio sia stato più o meno abbandonato alla fine della XX dinastia, in un’epoca in cui l’Egitto si stava indebolendo. L’ara sacra serviva da cimitero per i sacerdoti e le sacerdotesse di Amon, e vennero messe al sicuro lì anche alcune mummie reali. Con il tempo la sabbia e la polvere ricoprirono gran parte del monumento; poi, in età tolemaica, le autorità religiose si occuparono di nuovo di Deir el Bahari. Il culto di Hatshepsut non vi era più celebrato da molto tempo, ma si allestirono alcune cappelle in cui i pellegrini veneravano due saggi divinizzati Imhotep, l’architetto di Gioser, e Amenhotep figlio di Hapu, l’architetto di Amenofi III. Monaci e anacoreti scelsero Deir el Bahari, «il convento del Nord», come luogo di meditazione. Nel V secolo d.C., sulle rovine del tempio egizio venne costruito un monastero, che era stato definitivamente abbandonato intorno al II secolo. Nell’VIII secolo, il luogo venne completamente disertato, per poi essere riportato alla luce grazie agli scavi del XIX secolo. Oggi abbiamo la fortuna di apprezzare la «meraviglia delle meraviglie» in uno stato non molto diverso da quello originario. Ma le opere di sbancamento e di restauro richiederanno ancora almeno una cinquantina d’anni di lavoro.

Sarebbe necessario un libro intero per parlare del tempio, descriverne l’architettura, percorrerne le sale, tradurne i testi, esporne le scene nei minimi particolari. Questo mondo di pietra, in cui è riservato un posto d’onore alla dea della gioia e dell’amore, Hathor, è un inno immortale alla bellezza. La regina vi onorò suo padre, Thutmosi I, il grande dio Amon-Ra, ma anche il dio solare Ra-Harakhte e la divinità dei morti Anubi. Nei locali delle fondamenta, agli angoli dell’edificio e sotto la soglia, sono stati scoperti alcuni simboli religiosi come, per esempio, degli scarabei, diversi utensili quali magli e forbici, strumenti vari per il rito dell’apertura della bocca e alcune giare con l’iscrizione: «La figlia di Ra, Hatshepsut, ha fatto costruire questo monumento per suo padre Amon, quando è stata tesa la corda per il tempio di Amon, la meraviglia delle meraviglie». Per accedere al tempio si doveva percorrere un viale di sfingi raffiguranti Hatshepsut, che così accoglieva di persona i pellegrini. Di fronte all’edificio si trovava un magnifico giardino, con viali di sicomori e filari di tamarindi, palme, alberi da frutto e arbusti da incenso. C’erano anche una vigna e vasche di papiro, dove si svolgevano riti di caccia e di navigazione. Due persee segnavano l’ingresso del tempio. Nel cortile inferiore, il portico consacrato alle scene di caccia mostra il faraone nell’aspetto di fiera con la testa umana mentre schiaccia i nemici in numero di nove, cioè la totalità dei paesi stranieri. Durante la celebrazione del rito dei quattro vitelli, il signore dell’Egitto viene assimilato al bovaro che dona la vita. Il faraone Hatshepsut procede quindi alla raccolta dei papiri in onore della dea Hathor, e caccia gli uccelli acquatici con una rete e i giavellotti. Il portico degli obelischi evoca il taglio, il trasporto e l’erezione dei giganteschi monoliti di granito rosa destinati al tempio di Karnak; per questi lavori viene utilizzata una chiatta di legno di sicomoro, lunga oltre sessanta metri. Quando il convoglio arriva a Tebe, il cielo è in festa. Amon promette a sua figlia Hatshepsut un regno felice. Sacerdoti, nobili, funzionari e soldati formano un corteo. Si celebrano sacrifici, in particolare lo smembramento dei buoi, quindi si procede alla dedica degli obelischi ad Amon. Hatshepsut compie diversi riti durante la donazione del terreno dove essi verranno eretti, in particolare sull’ara sacra, adottando la stessa posizione in cui si era fatto ritrarre Gioser.

Lasciamo il cortile inferiore e prendiamo la rampa di accesso alla terrazza intermedia. A nord, si trova la cappella del dio dalla testa di sciacallo, Anubi, che conduce la regina verso il fondo del santuario: Hatshepsut è così sicura di non perdersi nel regno dei morti. A sud, sorge la cappella di Hathor, dama dell’Occidente che accoglieva i defunti nella necropoli: a lei si offrivano fiori, frutti ed ex voto quali perle e scarabei. Il santuario è preceduto da una sala ipostila le cui colonne sono coronate da capitelli raffiguranti una testa di donna dalle orecchie di vacca. Hathor, ritenuta la madre della regina faraone, viene rappresentata ora sotto forma di vacca che lecca le dita di Hatshepsut seduta sotto un baldacchino, ora come una donna splendida. La dea accoglie la figlia che ha costruito una casa per lei e imbandito gli altari di cibi. La sala più sacra, stretta e profonda, è scavata nella parete rocciosa. La vacca sacra vi allatta Hatshepsut, infondendo così nella regina l’elisir dell’immortalità. Il dipinto sullo fondo presenta una triade, composta da Amon, che offre il segno della vita ad Hatshesput, la quale viene in tal modo divinizzata, e da Hathor, che si tiene ferma la corona, mentre un disco alato plana al di sopra della scena.

Su questa terrazza intermedia, il portico della nascita venne concepito per spiegare l’origine divina di Hatshepsut e legittimarne il potere. Con l’aiuto dei sacerdoti tebani, ella creò il mito teogonico, secondo il quale suo padre sarebbe il dio Amon in persona. Amon, onorato dagli Amenemhet della XII dinastia, il cui nome significa “Amon è manifesto”, è il dio di Tebe, la città in cui nacque il movimento di liberazione dell’Egitto che avrebbe condotto alla cacciata degli hyksos. Pertanto, glorificando Amon, si ringraziava Tebe. L’origine del dio è oscura. Il suo nome significa “colui che è nascosto”. Piuttosto presto, egli assumerà caratteristiche solari, avvicinandosi così a Ra, sino a diventare onnipotente nel Nuovo Regno sotto forma di Amon-Ra, il re degli dei. Le scene del portico della nascita ci fanno assistere a un consiglio degli dei presieduto da Amon-Ra, che ha deciso di unirsi alla regina Ahmes-Nefertari, la più bella delle donne. Con il consenso del collegio divino, Amon assume le sembianze del faraone ed entra nella stanza della sua sposa, che trova addormentata. Ma la regina si sveglia al dolce profumo emanato dal corpo del marito: gli sorride e l’amore pervade i loro esseri che si uniscono. Resa gravida dal dio, la regina ha la gioia di dare alla luce una bambina che sarà investita del potere supremo. Gli dei intervengono per favorire la nascita: Khnum modella la neonata e il suo ka sul tornio da vasaio, affinché abbia vita, forza, salute, cibo in abbondanza, uno spirito equo, l’amore, ogni gioia e una lunga esistenza. La dea rana Heket anima le figurine forgiate da Khnum. Thot annuncia la futura nascita alla felice madre, che viene condotta nella camera del parto. Hatshepsut nasce in presenza di Amon e di nove divinità. Viene quindi presentata al suo divino padre, che saluta la carne della sua carne e la culla. Seguono quindi le scene dell’allattamento e della presentazione di Hatshepsut alla dea Seshat, che ne traccia i cartigli. «Sua Maestà cresceva meglio di qualunque altro essere» dice un testo. «Il suo aspetto era quello di una dea, il suo fulgore era divino. Sua Maestà divenne una bella fanciulla, fiorente come la primavera.»