La cronaca sembra dirci che il grande cambiamento in Medio Oriente si sta riducendo a una rivolta uguale per tutti: manifestazioni di piazza, repressione, morti, quando non è guerra come in Libia. Anche in Egitto che sembrava ne fosse uscito. La Primavera araba, invece, è come l'integrazione europea: viaggia a velocità diverse, una per ogni Paese.

Gli scontri inaspettati dell'altra notte al Cairo, nella piazza al-Tahrir mitica per la gran parte dei 400 milioni di arabi che non sono membri dei loro governi, è un segnale preoccupante: dimostra che non esistono "belle rivoluzioni" e che non basta una sola battaglia per vincerle. Ma è già qualcosa di diverso da ciò che sta accadendo nello Yemen e ancora più diverso dagli avvenimenti siriani.

Fino ad ora l'unica unità di misura sono i militari, ovunque: se passano dalla parte della piazza, la Primavera vince come in Tunisia ed Egitto; se restano col potere come in parte in Yemen e Libia, e completamente come in Siria, i cambiamenti non riescono a imporsi. Perché non c'è repubblica araba che non sia emanazione delle forze armate. Le monarchie sono una storia diversa ma anche loro alla fine sopravvivono col sostegno politico dei militari. Quello che è accaduto l'altra notte al Cairo, dove per la prima volta l'Esercito ha aggredito i manifestanti di Piazza Tahrir, è già un passo successivo e fondamentale della Primavera egiziana: lasciato ai militari il compito di guidare la transizione, la piazza chiede che una volta svolto si ritirino: che non siano più il fattore della vicenda politica ma solo un'istituzione del prossimo Egitto democratico. Se passa questo concetto, è la rivoluzione della rivoluzione. Considerando che le Forze armate nel paese sono anche un enorme conglomerato che controlla fabbriche, fattorie, ospedali, imprese high-tech. Una joint venture con Chrysler permette loro di produrre jeep e di controllare il mercato mediorientale anche dei fuori strada civili.

In Siria questo punto è molto lontano. Le Forze armate sono con il regime ed è per questo che il presidente Bashar Assad continua a ignorare i segnali sempre più evidenti della protesta popolare. Il leader di Damasco si sente così sicuro fino a che i militari sono con lui (forse è lui ad essere con i militari), che all'inizio del mese di febbraio, quando la piazza già si agitava, aveva tolto il bando a Facebook, YouTube e Twitter che ora sono le armi più efficaci della protesta dell'opposizione.

Quale ne sarà la velocità, nessuna Primavera riuscirà tuttavia a realizzarsi se le nuove democrazie non risolveranno il problema che ha iniziato la crisi delle vecchie autocrazie.

Nei prossimi dieci anni il mondo arabo esclusi i Paesi ricchi del Golfo persico, deve creare diciotto milioni di nuovi posti di lavoro a tempo pieno. Per fare tutto questo occorre una crescita economica del sei e mezzo percento. Quella media del 4,5 registrata dal 2001 al 2009 produrrebbe solo 11 milioni di nuovi posti di lavoro. E servono soprattutto sistemi educativi moderni, al passo con i tempi. In Egitto, Siria e Tunisia i giovani con un diploma o una laurea, il cuore della protesta delal cosiddetta primavera araba, sono il quaranta per cento dei disoccupati.

Fonte: Il Sole 24 Ore