Che possa toccare anche a loro? Da parecchi giorni gli inossidabili "presidenti quasi a vita" di diversi paesi arabi non dormono sonni tranquilli. Dalle loro poltrone hanno visto il mondo cambiare. Usciti vittoriosi da elezioni con percentuali bulgare, hanno resistito a tutto e a tutti. L'onda della rivolta dei gelsomini rischia ora di crea loro problemi seri. Dalla Tunisia, allo Yemen, passando per Algeria ed Egitto, decine di migliaia di dimostranti sono scesi in piazza. Al grido "Vogliamo la nostra Tunisia" chiedono generi alimentari a prezzi più accessibili, riforme democratiche, lavoro per tutti, libertà. Ma prima di tutto esigono che i loro longevi capi di stato seguano l'esempio dell'ex presidente tunisino Ben Ali: l'esilio.

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Lo Yemen di Saleh - L'ultima protesta ispirata ai fatti di Tunisi è scoppiata nel lontano Yemen, il più povero dei paesi arabi (1/3 dei 25 milioni di yemeniti vive in regime di povertà assoluta). Migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale Sanaa, e in altre città, a chiedere le dimissioni del presidente. Difficile che il coriaceo Abdullah Saleh, 64 anni, decida di abdicare. Il Nuovo Yemen, nato nel 1990 dalla riunificazione tra Nord e Sud, non ha avuto altro presidente che lui. Saleh è un abile tessitore di relazioni in un paese rigorosamente islamico, dove domina un sistema tribale. Il potere lo conosce bene. Di fatto governa da 33 anni. «Essere al potere per più di 30 anni è abbastanza: Ben Ali ci è rimasto 23 anni», urlavano ieri gli yemeniti esasperati da un regime che ha mancato le promesse di riforma. Allarmato, Saleh ha promesso di non ricandidarsi ed ha alzato gli stipendi dei funzionari pubblici. Ma il temperamento sanguigno degli yemeniti è imprevedibile. Difficile che siano in grado di rovesciare il regime, ma se riuscissero a farlo è improbabile che ciò avvenga senza un grande spargimento di sangue.

L'Egitto del Rais Mubarak - Dell'anziano Mubarak, il rais dell'Egitto, si è già parlato molto; 82 anni, al potere da 30, il rais è uscito vincitore da ben cinque discusse tornate elettorali. Consultazioni controverse, criticate aspramente da diverse organizzazioni internazionali e da diversi paesi. Fino a qualche giorno fa nessuno si attendeva un cambiamento alle prossime elezioni presidenziali, in autunno. Con alrgo anticipo si parlava dell'ennesima cronaca di una vittoria annunciata. Se le precarie condizioni di salute di Mubarak non dovessero consentirgli di correre per il sesto mandato, il successore designato è il figlio Gamal. Comunque andrà la rivolta (anche oggi ci sono state violente proteste) , le cose sono ora cambiate, la partita si è fatta più incerta.

La turbolenta Algeria di Bouteflika - Nella turbolenta Algeria le proteste vanno avanti da più di una settimana. Un altro giovane disoccupato si è dato fuoco ieri, portando così a 13 la lista delle aspiranti torce umane (due persone sono decedute) in nove giorni. Quasi tutti protestano contro la dilagante disoccupazione e i rincari alimentari. Ad essere preso di mira è il governo di Abdelaziz Bouteflika, certo non un modello di democrazia. Arrivato al potere nel 1999, con davanti a sé un Paese distrutto da otto anni di guerra civile, Bouteflika è stato fortunato. Allora il petrolio si stava risollevando dai minimi del 1998, quando il barile precipitò a 10 dollari. Rieletto nel 2004 con l'85% dei consensi, si trovò a gestire una ricchezza insperata. In soli 4 anni il greggio volò da 40 al record di 147 dollari. Bouteflika non è tuttavia riuscito a guarire il Paese dalla petro-dipendenza. Nel 2010 l'export di greggio ha portato nelle casse dello stato più di 50 miliardi di dollari. Ma è una ricchezza che non si vede. Anche questo è un boom senza benessere, che relega i giovani ai margini della società. Il governo sta cercando di correre ai ripari con colossali acquisti di grano, promesse di rimpasto (l'ultima ieri) e con misure meno usuali. Come la sospensione del ritiro delle patenti previsto per innumerevoli infrazioni.

La Libia di Gheddafi - La Libia del colonnello Gheddafi, insieme all'Algeria la potenza petrolifera del Nordafrica, è uno dei pochi paesi arabi apparentemente immuni al virus tunisino. Non perché sia un perfetto esempio di Stato di diritto. Probabilmente per il motivo opposto. Impensabile ribellarsi al pugno di ferro di Muhammar Gheddafi, il più longevo dei dittatori arabi. A soli 25 anni, nel 1969, organizzò un colpo di Stato, rovesciando re Idriss. Nel 1977 proclamò la Jamahiriyah, "lo Stato delle masse". Da allora è sempre stato al suo posto. Eppure il vento della rivolta dei gelsomini ha trasportato i suoi semi anche qui. Qualche manifestazione, seppur minore, c'è stata nella città di al-Bayda. Una novità in un regime che, ancor più dei vicini, non tollera espressioni di dissenso e manifestazioni. LO stesso , spavaldo MUhammar, poco dopo la caduta di Ben Ali, il 14 gennaio, si è lasciato andare a un commento che palesa un certo nervosismo sulle possibili conseguenze della crisi tunisina nella regione: «Non c'era persona migliore di Zine (Ben Ali, ndr) per governare. La Tunisia ora vive nella paura». A questo punto escludere colpi di scena non è saggio. Ma è improbabile che si ripeta quanto accaduto nella vicinaTunisia.

Giordania e Marocco - Qualche protesta, seppur più contenuta, legata al rincaro dei generi alimentari, alla disoccupazione e alla mancanza di libertà, c'è stata anche in Giordania e in Marocco. Ma i due giovani monarchi , Abdullah II e Mohammed VI, si sono dimostrati più abili nel salvaguardare la propria figura e più disponibili a concedere parziali riforme.

L'imbarazzo degli Stati Uniti - Obtorto collo gli Stati Uniti spesso hanno dovuto trasformare i presidenti quasi a vita in importanti alleati. A loro è stata affidato un compito molto dedicato: bloccare l'avanza del fondamentalismo islamico. Come nel caso dell'Egitto, dove Mubarak impedisce da tempo, ricorrendo a mezzi del tutto democratici , l'ascesa del movimento dei fratelli musulmani, ormai molto popolare. Saleh in Yemen ha offerto piena collaborazione agli Stati Uniti nella lotta contro le cellule di al-Qaeda, ormai sempre più numerose in Yemen. Stesso discorso per l'Algeria, gigante petrolifero che deve combattere una battaglia quotidiana contro gli estremisti salafiti. Perdere il loro petrolio, e il loro sostegno alla lotta contro il terrorismo, mette paura . ora Washington, timidamente, sta incoraggiando il regime egiziano a rispettare il diritto di manifestare e a concedere riforme democratiche. Finora, però, si è preferito chiudere un occhio. Finora.

di Roberto Bongiorni - Sole 24 Ore