In Paolo Matthiae, archeologo, già direttore del Dipartimento di Scienze storiche, archeologiche e antropologiche dell’Antichità alla Sapienza di Roma, scopritore della città di Ebla e direttore della relativa missione archeologica in Siria, c’è il mistero che alcuni, nascendo, si portano in dote. E quando racconta di essere stato sedotto, ancora ragazzo, dalla lettura di un libro malandrino e bellissimo, Civiltà sepolte di Ceram, dà implicitamente motivo a questa constatazione.
Lo guardi, lo ascolti, e vedi in lui i segni della predestinazione: se Champollion, il decifratore dei geroglifici, aveva la cornea giallastra dei Faraoni, nel professore romano ci sono il corruccio austero degli antichi re di Ebla, Igrish-Halam, Irkab-Damu o Ar-Ennum, e la temibile serenità di Kura, il padre degli dèi.
Il suo cognome, professore, così poco romano?
«Il nonno paterno lasciò Berlino per Roma a metà Ottocento. Da allora la nostra famiglia non si è mossa da qui. Fino a mio fratello, che si chiama Giorgio, e a me, anche il primo nome dei maschi ha avuto un aggancio con la Germania: si sceglieva fra Enrico e Guglielmo. Per parte di madre ci sono invece il Piemonte e Firenze. Ed è piemontese anche mia moglie».
Ceram e il suo libro hanno gettato il seme della seduzione archeologica. Quanto hanno contato, invece, la tradizione culturale di famiglia e i grandi maestri con i quali ha studiato?
«Dopo Ceram, letto in quinta ginnasio un libro tutt’altro che banalmente divulgativo, uscito in Italia con la prefazione di Ranuccio Bianchi Bandinelli mi ero lasciato attrarre dall’egittologia. Papà, storico dell’arte medievale, sovrintendente ai Beni culturali dell’Aquila, quindi alle Gallerie romane, con sede a Palazzo Venezia, facilitò la mia passione orientale. Ma arrivando all’Università, facoltà di Lettere, trovai opportuno non ingrossare ulteriormente la schiera già numerosa degli egittologi e decisi di occuparmi di civiltà meno conosciute. Mi laureai nel 1962, con una tesi sulla civiltà della Siria nel secondo Millennio avanti Cristo. Era il tempo in cui Sabatino Moscati dava slancio allo studio delle civiltà orientali antiche, aprendo all’interesse e al lavoro dei giovani il mondo, ancora molto elementare, dell’archeologia ad esse relativa. Gli altri maestri che mi hanno formato? Bianchi Bandinelli; sul piano archeologico Salvatore Puglisi; l’egittologo Sergio Donadoni e Giulio Carlo Argan per gli aspetti storico-artistici».
E veniamo alla fatidica estate del 1962. Che Italia era?
«Era un’Italia piccola e ancora povera che però cominciava ad avere più mezzi e, soprattutto, guardava all’Europa. Quanto all’Orientalismo, il nostro Paese non aveva mai avuto nulla. Semmai grandi arabisti, come Giorgio Levi Della Vida, che negli anni Trenta avrebbe voluto lanciare l’Orientalismo, cosa che riuscì poi a Moscati. Ma torniamo al 1962. Fresco di laurea, ventiduenne, entusiasta di ogni cosa, mi trovai in Turchia, ad Arslantepe, sugli scavi di Puglisi. Ero ancora combattuto fra l’archeologia intesa soprattutto come storia dell’arte e l’archeologia sentita come storia materiale. Viaggiai verso la Siria avendo, forse, una sola certezza: la vaccinazione antitifica fatta prima di partire. Da incosciente a caccia di siti antichi, bevvi con tranquillità acqua contaminata dalle bacinelle dei pastori...».
Cos’era la Siria, allora, per lei?
«Il mio sogno. Passai la frontiera turco-siriana in una calda notte di luglio. Feci tappa ad Aleppo, all’Hotel Baron, approdo degli archeologi di tutto il mondo, dove aveva sostato anche Lawrence d’Arabia prima della rivolta del deserto. In una vetrina, nella hall, è ancora esposto il suo conto. Il Baron è rimasto lo stesso, se lo cambiassero sarebbe uno choc».
E poi?
«Visitai il museo di Aleppo, i materiali del mondo siriano dell’etò del Bronzo... A un certo punto fui colpito da un bacino di basalto nero, scolpito su tre lati: non avevo mai visto nulla si simile. Pensai che il reperto fosse più antico, che potesse appartenere al I millennio. Chiesi da dove venisse, volli andare sul posto».
Il vento di Ebla cominciava a spirare?
«Il sito della futura Ebla, a una cinquantina di chilometri a sud di Aleppo, era tutto arato, nome arabo Tell Mardikh, solo tre chilometri all’interno rispetto dalla strada principale. Ci arrivai con un taxi scassato, guardai a lungo la terra che si estendeva sotto i miei occhi, intatta, non coperta nemmeno da cimiteri islamici, dunque perfetta per un’esplorazione sistematica. Là, in quella rete di colline che nascondeva il luogo alla vista di chi percorreva la strada, sotto pochi metri di terra, c’era Ebla: la Città bassa, l’Acropoli e una grande cinta muraria».
Ottenne subito l’autorizzazione di scavo?
«Giovane e inesperto, dopo aver visto il famoso bacino, ebbi innazitutto la disinvoltura di andare sul posto, poi quella di tornare a Roma e ottenere la concessione di uno scavo di 60 ettari. Ma prima, all’hotel Baron, il regalo di una premonizione illustre. Il professor Anton Moortgat, grande archeologo e pianista dilettante (era al pianoforte dell’hotel quando gli parlai), richiesto di un parere su Tell Mardikh proferì una sentenza da Sibilla: “Se Roma chiederà la concessione, non se ne pentirà”».
A quali riferimenti scientifici si agganciava, la sua intuizione?
«La regione di Aleppo, nella prima metà del secondo millennio avanti Cristo, era vissuta all’ombra di una civiltà autonoma e importante. Il grande archeologo di Ur, Leonard Woolley, che aveva scavato dal 1936 al 1949 nel sito antico di Alalakh, era giunto anche ad altre importanti conclusioni sulla Siria interna. Le sue pubblicazioni lasciavano pensare che attorno ad Aleppo fosse esistita una cultura indipendente addirittura fin dall’inizio del secondo millennio».
Quindi, Ebla.
«Gli archeologi hanno forse la tendenza a magnificare le imprese di cui sono protagonisti. Però quando, nel 1975, arrivammo alla scoperta dei famosi Archivi, fu tale la portata evidente del ritrovamento che Ignace J. Gelb, illustre studioso di Chicago, commentò: “Gli italiani hanno scoperto ad Ebla una nuova storia, una nuova lingua, una nuova cultura”.
Quali, le tappe più importanti dello scavo nel suo complesso?
«Tenuto conto che iniziammo sistematicamente nel 1964, è del ’68, nell’antica Ebla, il rinvenimento della prima iscrizione cuneiforme. Avemmo la conferma definitiva che il sito era quello giusto per risalire indietro nel tempo. Nel 1973, quando mi ostinai a non voler interrompere il ciclo regolare delle campagne, che rischiava di scombinarsi, scelsi di scavare per pochi giorni sul pendìo occidentale dell’acropoli. Affiorò, ad appena 50 centimetri di profondità, un pezzo di intonaco molto ben conservato. Apparteneva al vano di una scala a quattro rampe del torrione del monumentale Palazzo reale. Nel ’74 trovammo 42 tavolette cuneiformi e si ebbe la dimostrazione che la scrittura era conosciuta in Siria nel 2300 avanti Cristo. Nel ’75-’76 affiorarono gli Archivi Reali: 17.050 numeri di inventario, dalle quattro alle cinquemila tavolette di cui, tutt’ora intere, dalle 1800 alle 1900. Moscati fece un articolo sul Corriere della Sera. Quando il Times dedicò alla scoperta il fogliettone di prima pagina, Ebla ebbe una risonanza mondiale. Ruberti, da poco tempo Rettore della Sapienza, che era un ingegnere, mi disse più o meno: “Matthiae, io non sono del settore, ma se il Times dà a Ebla la prima pagina, vuol dire che è proprio importante”».
In Italia si resero conto tutti subito del peso della scoperta?
«Adesso Ebla è una gloria nazionale, ma il nostro è stato uno degli ultimi Paesi ad accorgersi della sua importanza. Fondamentale fu la mostra del 1995 a Palazzo Venezia, inaugurata da Oscar Luigi Scalfaro, allora Capo dello Stato, che poco dopo mi nominò Cavaliere di Gran Croce. E fui chiamato all’Accademia di Francia prima che ai Lincei».
Cosa le ha dato e le dà, Ebla, sul piano umano oltre che su quello scientifico?
«Il senso e il culto dell’alterità. Ebla va più verso l’India e la Cina che verso le radici della cultura occidentale, ci insegna un’originalità culturale ricca di elementi non sottomettibili ai nostri punti di riferimento, da capire, eventualmente assumere, non da colonizzare. Noi archeologi, alla fine dei conti, facciamo un mestiere adatto a questi tempi: alterità significa tolleranza. E la tolleranza è, per eccellenza il problema contemporaneo».
ROMA (3 maggio) - Il Messaggero