Alcuni brani dello splendido libro di Marco Zatterin: Il Gigante del Nilo
Un uomo alto due metri, massiccio, con una folta barba rossa, vestito alla turca, entra per primo, dopo tremila anni, nella tomba di Sethi I. Ha trentanove anni e una vita romanzesca alle spalle. E nato a Padova, ha fatto il barbiere, ha studiato idraulica, lavorato in teatro a Londra e in giro per l’Europa. Si chiama Giovanni Battista Belzoni, ma nel vecchio continente tutti lo conoscono come «The Great Belzoni».

E stato senza dubbio il primo grande archeologo italiano in Egitto, forse uno dei più grandi in assoluto nell’età più avventurosa della «corsa» al Paese dei faraoni, a cavallo tra Settecento e Ottocento: l’età della spedizione napoleonica e delle scoperte di Champollion. Per la prima volta una biografia avvincente come un romanzo colma un vuoto inspiegabile e porta alla luce uno dei personaggi centrali nella storia dell’incontro fra Europa ed Egitto: dalle esibizioni sulla ribalta come «Sansone patagonico» all’incontro con il pascià d’Egitto (al quale Belzoni cercò di vendere una delle sue ingegnose macchine idrauliche), dal recupero della testa di Ramses II (tuttora conservata al British Museum) al dissabbiamento del tempio di Abu Simbel, dalla soluzione dell’enigma della piramide di Chefrem (Belzoni fu il primo che riuscì a entrarvi e il suo nome si può leggere su una parete della stanza funebre) fino alla morte solitaria in Nigeria, nel tentativo di raggiungere la mitica Timbuctu, la regina delle sabbie. Il grande Belzoni Grazie a numerosi documenti inediti, Marco Zatterin ricostruisce le gesta rocambolesche e le fondamentali scoperte archeologiche del «gigante del Nilo», ma indaga anche sulle rivalità che il suo attivismo suscitò nei «concorrenti» (rivalità che culminarono in un attentato alla sua vita) e sulla successiva esclusione dall’empireo dell’egittologia. E mostra le numerose «coincidenze», alimentate dall’invidia per le sue grandi scoperte, che hanno determinato il lunghissimo silenzio su Belzoni. Un uomo rigoroso e appassionato, odiato e osannato, romantico e intraprendente, che, venuto dal nulla, trasformò l’egittologia da un’arte improvvisata in una scienza che non ha ancora finito di stupire.

Il gigante del Nilo

INTRODUZIONE

Per 4500 anni gli uomini avevano creduto che la seconda delle tre grandi piramidi di Giza non avesse un’entrata e una camera mortuaria: pensavano fosse un edificio massiccio di calcare e granito concepito solo per rendere immortale la memoria di un potente faraone del passato. Interpretando alla lettera i testi di Erodoto, per secoli gli egiziani e ì viaggiatori avevano accettato l’impenetrabilità dell’immensa tomba di Chefren, il figlio di Cheope che regnò lungamente intorno al 2500 a.C. Per tutti, per i contadini che coltivavano le fertili sponde del Nilo, per i sovrani che li avevano sfruttati e per i coraggiosi europei che si erano spinti ad ammirare le costruzioni che segnavano le straordinarie colline a sud del Cairo, sotto le pietre di quella piramide c’erano solo e soltanto altre pietre. Doveva però arrivare un uomo diverso da tutti, enorme nella mole e nel talento, che per primo avrebbe guardato le antiche vestigia con occhi nuovi, avrebbe saputo osservare oltre che vedere. Chi fosse passato sulla piana di Giza nel gennaio del 1818 lo avrebbe potuto scorgere seduto fra le rovine di un antico tempio a est della piramide di Chefren. Gli sarebbe sembrato uno del posto ma, su quel volto cotto dal sole e incorniciato da una folta barba, gli occhi chiari avrebbero tradito origini non mediorientali e reso il giudizio più difficile. Il fisico da gigante, due metri portati con facilità da un corpo proporzionato, avrebbe accresciuto le possibilità d’inganno, fuori dal comune come era per qualunque razza conosciuta. Sentirlo parlare non avrebbe offerto alcun aiuto. L’inglese gli sarebbe uscito dalla bocca con un accento lontano dagli insegnamenti oxfordiani, il francese sarebbe apparso incompleto, l’arabo poco più che elementare, e l’italiano, sebbene lingua madre, sarebbe risultato ben distante dalla perfezione. Se qualcuno lo avesse interrogato, avrebbe risposto con cortesia di chiamarsi Giovanni Battista Belzoni, di essere romano, e di trovarsi in Egitto alla ricerca di «antichità». Non avrebbe esitato a raccontare gli ultimi formidabili mesi della sua vita, la sua gloriosa stagione di esploratore. In poco tempo era riuscito a recuperare a Tebe il colossale busto del Giovane Memnone che l’Armata napoleonica aveva tentato inutilmente di far suo. Aveva liberato dalla sabbia il tempio di Ramses TI ad Abu Simbel, subito prima di trovare sei tombe nella Valle dei Re e, fra queste, la più bella di tutte, la «Tomba Belzoni». L’intera storia, anche i malanni causati da una recente oftalmia e i fastidi provocati da un odorato ormai poco sensibile, sarebbe stata narrata con abbondanza di dettagli e un vivace agitarsi delle braccia. Al contrario, su due cose avrebbe mantenuto un silenzio spesso e insondabile: gli avvenimenti degli anni precedenti l’arrivo ad Alessandria e i progetti che in quel preciso momento stava elaborando. Belzoni non era romano. Figlio di un barbiere, nacque a Padova nel 1778. Trasferitosi in riva al Tevere appena sedicenne, visse una vita improvvisata sino al suo soggiorno in Egitto, cominciato nel giugno del 1815. Fu commerciante di oggetti sacri a Parigi e soldato in Germania. In Olanda perfezionò le conoscenze di idraulica apprese all’ombra del Cupolone. Poi, per oltre dieci anni, seppe infiammare le platee dei teatri britannici ed europei con numeri di forza e fantastiche macchine ad acqua e fuoco. La sua «piramide umana», esercizio in cui caricava in spalla sino a una dozzina di persone, restò a lungo uno degli spettacoli più applauditi dai sudditi di Giorgio III. A Londra come a Edimburgo, per tutti era diventato il Grande Belzoni.

In Inghilterra aveva trovato moglie, Sarah, una donna alta e forte, una creatura speciale che lo avrebbe accompagnato in un ventennio di avventure. Insieme viaggiarono da una città all’altra, dalla Scozia all’Irlanda, dal Portogallo alla Spagna, e da qui sino a Malta dove si compì il loro destino. Alla Valletta Belzoni convinse un alto funzionario del pascià Muhammad ‘Ali che le sue doti di ingegnere potevano concepire una macchina idraulica in grado di rivoluzionare l’agricoltura egiziana. Per realizzare questo ambizioso piano fu invitato in Egitto e nel giugno del 1815 s’imbarcò per Alessandria. Un anno più tardi il progetto era fallito, affondato dagli interessi di una classe dirigente miope che sognava il progresso, ma non voleva che la trasformazione fosse troppo rapida. Il padovano si ritrovò senza lavoro, disperato, ma indisponibile alla resa. Fu allora che diede il via alla sua controversa e straordinaria corsa lungo il Nilo e nel deserto.

I legami con il console francese Bernardino Drovetti prima, e con il legato inglese Henry Salt poi, alimentarono il dubbio che egli fosse solo un abile agente al servizio di scaltri diplomatici. I metodi primitivi, e a volte necessariamente rozzi, gli valsero la fama di saccheggiatore. Invidiosi rivali incontrati strada facendo tentarono di scippargli il merito di scoperte senza pari e, nel migliore dei casi, di sminuirne il valore. L’energia e la caparbietà con cui combatté chi provava a ingannarlo e privarlo di ogni onore lo fecero passare per arrogante, aggressivo, tracotante e presuntuoso. Giovanni Battista Belzoni non fu nulla di tutto ciò. In quel grande corpo albergavano un’anima generosa e capacità innate. Era un uomo pratico, coraggioso, intuitivo. Non aveva studiato, tuttavia non smise mai di apprendere. Proprio l’essere dilettante gli permise di capire ciò che altri avevano ignorato. Il suo senso pratico gli consentì di aggirare ostacoli che signori, dottori e scienziati avevano ritenuto impossibili da rimuovere. In Egitto affrontò i segreti del perduto universo dei faraoni con un nuovo spirito. Lo fece per la curiosità e per l’avventura. Come tutti gli altri, fu spinto anche dal desiderio di fama e denaro, ma alla fine ebbe poco della prima e pochissimo del secondo. Fu raggirato e tradito. Soffrì per il disprezzo con cui i nobili e gli accademici lo trattarono a causa dei suoi umili natali.

Per tutte queste ragioni, a chi lo avesse incrociato in quel febbraio del 1818, Belzoni non avrebbe mai confessato che il suo obiettivo era ritrovare l’entrata della piramide di Chefren. Stavolta aveva deciso di agire nel più assoluto riserbo, sapeva che solo il silenzio avrebbe difeso la sua eventuale scoperta. Per giorni girò intorno alla montagna di pietra e sabbia, fece confronti e rilievi, cercò indizi e similitudini con quella di Cheope aperta da secoli. Alla fine ruppe gli indugi e cominciò a scavare. La grossa scritta Scoperta da G. Belzoni. 2. mar. 1818. che appare ancora oggi su una parete della camera del faraone racconta come andò a finire e testimonia la foga con cui volle cancellare Ogni possibile dubbio su chi fosse stato a smentire Erodoto.

Prima di Giovanni Battista Belzoni l’egittologia era soltanto un’idea remota coltivata da viaggiatori coraggiosi, ma spesso creduloni e maldestri La svolta si era avuta con la spedizione napoleonica del 1798, ma vent’annj dopo la missione francese le antichità venivano raccolte quasi esclusivamente per fini commerciali. Mentre in Francia Champollion si avviava a leggere i geroglifici, fra il 1815 e il 1819 il padovano fu il primo ad applicarsi con ordine e metodo a scavi sino ad allora ispirati più al caso che ad altro. Le sue scoperte furono frutto di tecnica e perseveranza, così come lo sarebbero state quelle dei suoi grandi successori. Stabili un modus operandi che tutti avrebbero seguito. Per Howard Carter fu «uno degli uomini più significativi nell’intera storia dell’archeologia» e, tutto sommato, «fece un eccellente lavoro».

Il Grande Belzoni si affermò come punto di rottura. Con lui finì la concezione settecentesca della ricerca mirata al bello e al valore, e si consolidarono gli insegnamenti di un’esplorazione finalizzata alla comprensione della storia. Con lui nacque l’egittologia divulgativa: il suo Narrative of the Operations and Recent Discoveries within the Pyramids, Temples, Tombs and Excavations in Egypt and Nubia... è il primo libro di successo su questa materia, un testo completo che aprì nuovi orizzonti, un titolo lungo che pure non la dice tutta sulle imprese contenute nel volume. Il suo intento pedagogico fu sempre evidente, come la passione di Giovanni per tutto ciò che potesse impressionare il pubblico. Il risultato fu la prima mostra di egittologia di tutti i tempi, pensata quando ancora era fra le sabbie di Tebe e organizzata a Piccadilly nel 1821 con la ricostruzione della tomba di Sethi I. Belzoni è il modello dell’archeologia eroica, l’ultimo dei cercatori per caso, il primo fra quanti hanno applicato una formula scientifica per strappare tesori alla terra. Sfiorò successi che sarebbero stati incredibili, come avvenne durante il viaggio all’Oasi di Bahariya in cui per poco non fu lui a scoprire la straordinaria Valle delle Mummie, venuta alla luce nel 1996. Nonostante ciò, il suo nome è oggi noto soltanto agli addetti ai lavori — che ancora si dividono fra estimatori e detrattori — e ai padovani, che in via Belzoni sfrecciano fra i quartieri universitari in direzione di Treviso e Venezia. Molti professori inorridiscono al solo sentirgli affiancare il titolo di «egittologo» e le guide a Tebe si ostinano a chiamarlo «il saccheggiatore». Narrative of the Operations... — o in italiano Viaggi in Egitto e Nubia — ha avuto negli ultimi centocinquant’anni solo ristampe a tiratura limitata, costose e introvabili. Gli acquerelli di Sethi I sono stati esposti nella loro totalità una volta sola nel X)( secolo, e ora riposano nell’archivio sotterraneo del Museo Civico di Bristol. Il gigante padovano è caduto in un oblio paradossale: tutti conoscono quello che ha fatto, pochi sanno che ne fu l’artefice. È come se una grande congiura avesse ottenuto il suo scopo. O quasi.

Fra acqua, fuoco e sabbia, la vita di Giovanni Battista Belzoni (spezzata nel 1823 mentre tentava di segnare un nuovo primato e raggiungere Timbuctu sulle orme di Mungo Park) regala ancora spunti intensi, ed è ricca di intricate vicende personali. Ci sono l’Antico Egitto, la sua scoperta, l’Europa napoleonica, gli albori dell’età delle esplorazioni africane fra personaggi straordinari e campioni di spregiudicatezza. E una storia che offre tutti gli ingredienti che piacerebbero a uno sceneggiatore cinematografico: gli umili natali, gli stenti, il teatro, un lungo amore, l’avventura, gli intrighi, le scoperte, il fallimento, la riscossa, la scalata sociale, li incontri a corte, il deserto, la gioia, il dolore, la morte solitaria. la vicenda del figlio di un barbiere che voleva essere grande in tutto e a dispetto di tutto, lottando contro le invidie e le regole ferree che separavano le classi sociali. E l’epopea del Grande Belzoni, il gigante del Nilo. L’uomo che prese per mano l’egittologia fanciulla e la fece diventare una scienza che non ha ancora finito di stupire.

Il Gigante del Nilo - Mondadori - ISBN 88-04-47799-7
Autore: Marco Zatterin