Nelle strade del Cairo è comparso di nuovo un enorme striscione con una parola sola: erhal, andate via. Due settimane fa uno striscione simile, anch’esso gigantesco e composto da un’unica parola in arabo, era apparso nelle strade di Tel Aviv. Ma non si riferiva a Hosni Mubarak o al maresciallo Mohamed Hussein Tantawi. Vicino allo slogan in arabo, c’era la scritta in ebraico “l’Egitto è qui”.

È successo il miracolo: gli israeliani hanno seguito la lezione degli arabi. Il 6 agosto gli israeliani sono scesi in piazza. Non saranno stati un milione, ma erano almeno 250mila e hanno invaso una città considerata la mecca del divertimento e della bella vita. Nelle stesse ore 70mila persone hanno manifestato in altre città. “Il popolo chiede giustizia sociale”, gridavano, rifacendosi allo slogan arabo “il popolo vuole la caduta del regime”.

Le due frasi, sia in arabo sia in ebraico, hanno un ritmo potente, contagioso. Il giorno dopo la manifestazione un amico di Gerusalemme mi ha detto: “Mi hanno già raccontato di come ti brillavano gli occhi mentre marciavi insieme agli altri” (in realtà ho percorso 250 metri in due ore). Mi ero unita ad alcuni attivisti di sinistra che faticosamente erano riusciti a mettere insieme un gruppo di palestinesi di Jaffa (cittadini israeliani) e i residenti di un quartiere degradato di Tel Aviv abitato da ebrei originari dei paesi arabi. Abbiamo marciato, cantato e battuto le mani, accompagnando i giovani ebrei con i tamburi che negli ultimi cinque anni sono diventati il simbolo dell’attivismo sociale contro l’occupazione.

Dal formaggio alla casa - Da più di quattro settimane in Israele è in corso una battaglia popolare e sociale, avvincente e senza precedenti. Per la prima volta da decenni il dibattito pubblico non si concentra sulla sicurezza. Una protesta nata su Facebook contro l’aumento del prezzo del formaggio fresco si è trasformata in una rivolta della classe media contro l’aumento dei prezzi delle case e la schiavitù dei mutui, evolvendosi rapidamente in una critica ampia e puntuale alle politiche neoliberiste che hanno portato alla privatizzazione dei servizi sociali e consolidato i privilegi per i più ricchi. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, il guru e l’unico predicatore israeliano del neo­liberismo, non avrebbe mai immaginato che un movimento di massa potesse far sorgere decine di accampamenti in tutto il paese, animati ventiquattr’ore al giorno da dibattiti, assemblee e letture. La democrazia nella sua forma più compiuta.

Alcuni osservatori critici (me compresa) non possono fare a meno di notare che il movimento evita di discutere dell’occupazione. Per questo motivo alcuni palestinesi si sono mostrati scettici nei confronti delle manifestazioni. Ma la verità è che, proprio come è successo a Tunisi e al Cairo, la protesta in corso porta con sé un dinamismo sovversivo: radicalizza chi è già convinto, chiarisce opinioni e analisi, politicizza persone che non hanno mai avuto interesse per la politica. Oggi si discute del budget esagerato destinato alla sicurezza come mai prima d’ora.

In un primo momento, i coloni hanno preso in giro i manifestanti definendoli yuppie e materialisti, ma quando si sono accorti della nascita di un vero e proprio movimento di protesta hanno cercato di salire sul carro, facendo finta di condividere le preoccupazioni degli altri. In ogni caso tutto questo ha contribuito ad alimentare il dibattito sui finanziamenti pubblici alle colonie. Gli israeliani d’origine palestinese e gli arabi di religione ebraica sono pienamente coinvolti nella protesta: dormono nelle tende e partecipano alle manifestazioni. I rappresentanti del movimento, emersi spontaneamente, hanno scritto un vision paper: qualcuno potrebbe definirlo grezzo e acerbo, ma in ogni caso è un invito importante a ridurre “il divario di classe, etnico, nazionale e di genere”.

L’ultimo segno del processo di radicalizzazione è la formazione di comitati di esperti che si sono offerti di dare consigli ai manifestanti. Sono importanti professori universitari che hanno sempre abbinato il concetto di giustizia sociale alla critica dell’occupazione. Oggi sono ascoltati dalla gente, dai giornalisti e dai mediatori, gli stessi che solo poche settimane fa li consideravano tipi bizzarri e insignificanti.

Sappiamo benissimo che in futuro ci aspettano delusioni. Ma per ora lasciateci godere di questo raro (e lungo) momento di ottimismo.

Amira Hass: È una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, scrive per il quotidiano Ha’aretz e ha una rubrica su Internazionale. Traduzione di Andrea Sparacino - Internazionale, numero 911 , 19 agosto 2011