La più famosa, e probabilmente la più romantica, decifrazione archeologica fu quella dei geroglifici egiziani. Per secoli la scrittura degli antichi Egizi era rimasta incomprensibile; sul suo significato gli studiosi potevano solo avanzare congetture. Ma grazie a un classico procedimento di decrittazione, il significato dei geroglifici fu riscoperto, e da allora gli archeologi hanno potuto attingere a resoconti di prima mano sulla storia, la cultura e le opinioni della civiltà fiorita millenni or sono presso il corso del Nilo. La decifrazione dei geroglifici ha gettato un ponte sull'abisso temporale che ci separa dall'epoca dei faraoni.
I più antichi geroglifici risalgono al 3000 a.C., e questa elaborata forma di scrittura sopravvisse per altri tre millenni e mezzo. Le sue eleganti immagini, perfette per le pareti di maestosi templi (la parola «geroglifico» equivale a «incisione sacra», venendo dalle parole greche hieros, che significa sacro, e glyphein, che significa incidere), erano di esecuzione troppo laboriosa per argomenti di carattere quotidiano. Perciò accanto alla geroglifica nacque una scrittura detta ieratica, un mezzo di comunicazione e notazione di carattere pratico in cui le incisioni sacre erano sostituite da immagini stilizzate, più agevoli da tracciare. Intorno al 600 a.C. lo ieratico venne a sua volta affiancato da una grafia ancora più semplice e adatta a impieghi prosaici, perciò detta demotica, ossia «popolare». Le grafie chiamate geroglifica, ieratica e demotica erano sostanzialmente la stessa scrittura, e non si sarebbe lontani dal vero definendo meramente «tipografiche» le differenze che le separavano.
Tutte e tre le grafie erano fonetiche. In altre parole, le unità da cui erano formate rappresentavano prevalentemente singoli suoni, come avviene per le lettere dell’alfabeto italiano. Per più di tre millenni, gli antichi Egizi le utilizzarono per gli scopi e nelle situazioni più vani, allo stesso modo in cui la lingua scritta è impiegata oggi. Poi, verso la fine del IV secolo d. C., nell'arco di una generazione la tradizionale scrittura egiziana scomparve. Gli ultimi suoi esempi databili si trovano nell’isola di Philae. Un’iscrizione geroglifica fu incisa in un tempio nel 394 d. C., e un frammento di graffito demotico è stato datato 450 d. C. Responsabile di questa sparizione fu il diffondersi del cristianesimo, che vietò l’uso dei geroglifici per rompere ogni legame della popolazione col suo passato pagano. Le antiche grafie furono sostituite dal copto, una scrittura basata sulle 24 lettere dell’alfabeto greco con l’aggiunta di sei caratteri demotici per suoni egiziani privi di equivalente in greco. Il sopravvento del copto fu così completo che la capacità di leggere i simboli geroglifici, ieratici e demotici si perse rapidamente. D’altra parte l’antica lingua egiziana continuò a essere parlata, e si trasformò nella cosiddetta lingua copta. Quest’ultima, comunque, ebbe una vita relativamente breve, perché a partire dall’XI secolo fu soppiantata dall’arabo. Fu così spezzato l’ultimo legame linguistico con l’Egitto degli antichi regni, e le nozioni necessarie a leggere le cronache dell’epoca dei faraoni furono cancellate.
L’interesse per i geroglifici si risvegliò nel XVII secolo, quando papa Sisto V riorganizzò la città di Roma secondo una nuova rete di viali, alle cui intersezioni fece innalzare obelischi provenienti dall'Egitto. Gli studiosi tentarono di decifrare le sequenze di simboli visibili sui monumenti, ma furono fuorviati da un presupposto sbagliato. Nessuno prese sul serio la possibilità che quei simboli fossero caratteri fonetici, o fonogrammi, perché si riteneva che un’idea simile fosse troppo sofisticata per una civiltà così antica. Secondo gli eruditi del Seicento, i geroglifici dovevano essere semagrammi, cioè elementi di una scrittura primitiva che tendeva a dipingere i pensieri, e corrispondevano a concetti, non a suoni linguistici. Già al tempo in cui i geroglifici erano impiegati, l’idea che essi rappresentassero una pittografia era molto diffusa tra gli stranieri che visitavano l’Egitto. Lo storiografo greco del I secolo a. C. Diodoro Siculo affermò:
Accade dunque che la forma delle lettere egiziane assuma l’aspetto di ogni tipo di creatura vivente, e delle estremità del corpo umano, e degli arnesi da lavoro.., perché il loro modo di scrivere non esprime l’idea che ha di mira con una combinazione di sillabe, collegando questa a quella, ma per mezzo dell’aspetto esteriore di ciò che viene imitato, e del significato metaforico impresso nella memoria dalla pratica... Così il falco rappresenta per loro [gli Egiziani] tutto ciò che accade rapidamente, perché è la più veloce delle creature alate. L’idea è poi trasferita, per mezzo di metafore adatte, alle cose veloci e a quelle a cui si addice l’idea della velocità.
Visti i precedenti, non c’è da meravigliarsi se i dotti del XVII secolo tentarono di tradurre i geroglifici interpretando ciascuno di essi come l’espressione di un’idea completa. Per esempio, nel 1652 il gesuita tedesco Athanasius Kircher pubblicò un dizionario di interpretazioni allegoriche intitolato Oedipus aegyptiacus, e su esso si basò per una serie di traduzioni tanto affascinanti quanto errate. La manciata di geroglifici che oggi sappiamo rappresentare semplicemente il nome del faraone Apries, furono tradotti da Kircher nel modo seguente: «I benefici del divino Osiride vanno procurati per mezzo di cerimonie sacre e della catena dei Geni, affinché i benefici del Nilo siano ottenuti». Oggi le traduzioni di Kircher appaiono risibili, ma nell'ambiente degli aspiranti traduttori dall'egiziano il loro impatto fu enorme. Il gesuita, infatti, era più di un semplice egittologo aveva pubblicato un trattato di crittografia, costruito una fontana musicale, inventato la lanterna magica (preannuncio del cinematografo); e si era affacciato sul cratere del Vesuvio, guadagnandosi l’epiteto di padre della vulcanologia. Per molti, egli era il più grande studioso di quel tempo, e le sue idee influenzarono generazioni di egittologi.
Un secolo e mezzo più tardi, nell'estate del 1798, l’antico Egitto tornò al centro dell’interesse europeo allorché Napoleone Bonaparte creò una squadra di storici, scienziati e disegnatori che doveva accompagnare l’armata di invasione diretta al Paese delle piramidi. Questi accademici, o «cani pechinesi», come sprezzantemente li chiamavano i soldati, eseguirono un lavoro di mappatura, copiatura e trascrizione assai notevole per quantità e qualità, e nel i 1799 entrarono in possesso della pietra più celebre della storia dell’archeologia. Il reperto non fu trovato da uno studioso, ma da un gruppo di militari di stanza al forte Julien, nella città di Rosetta vicino al delta del Nilo. Essi avevano avuto ordine di abbattere un vecchio muro in vista dell’allargamento del perimetro del forte, ma si accorsero che nella parete c’era una pietra con un’evidente serie di iscrizioni. Com'è noto, le iscrizioni consistevano in tre versioni differenti: greca, demotica e geroglifica di un solo testo. La stele di Rosetta, come da allora fu chiamata era quindi l’equivalente di un crib, come quelli che aiutarono i crittoanalisti di Bletchley Park a venire a capo di Enigma. L’iscrizione in greco si poté tradurre facilmente, e diventò il testo chiaro con cui confrontare la scritta demotica e quella geroglifica. La stele di Rosetta era un’occasione senza precedenti di scoprire il significato dei più antichi simboli egiziani.
Gli studiosi compresero subito il valore della stele, e la inviarono all'istituto Nazionale del Cairo per studi approfonditi. Tuttavia, prima che questi avessero inizio fu chiaro che il corpo di spedizione francese, che era stato attaccato dagli inglesi, non sarebbe riuscito a fermare l’avanzata nemica. Fu deciso di trasferire il reperto dal Cairo alla relativa sicurezza della città di Alessandria; ma per ironia della sorte, quando infine i francesi si arresero l’articolo XVI del trattato di capitolazione assegnò alla Gran Bretagna tutte le antichità di Alessandria, mentre concesse ai francesi di trasferire nella madrepatria tutte quelle conservate al Cairo. Nel 1802 il prezioso blocco di basalto nero (alto 118 cm, largo 77, spesso 30 e del peso di Ca. 750 chili) fu caricato sulla nave di Sua Maestà L'Egyptienne, diretta a Portsmouth, e giunto in Inghilterra fu collocato al British Museum, dove da allora risiede. La traduzione dell’iscrizione greca rivelò che la stele conteneva un decreto del concilio generale dei sacerdoti egiziani, che risaliva al 196 a. C. Il testo elencava i benefici apportati dal regno del faraone Tolomeo al popolo d’Egitto, e precisava gli onori che in cambio i sacerdoti avevano concesso, e concedevano, al sovrano. Per esempio, si dichiarava che «pubblici festeggiamenti si terranno per il Re Tolomeo, l’immortale, prediletto di Ptah, il dio Epifanes Eucharistos, una volta all'anno nei templi di tutto il Paese dal I di Troth per cinque giorni, in occasione dei quali si indosseranno ghirlande, si effettueranno sacrifici e libagioni e gli altri consueti atti di omaggio».
seconda parte dell'articolo: Il ruolo di Young nella decifrazione dei geroglifici - parte2