I piccoli papiri ci parlano. Ritrovate le domande all'oracolo del Fayum. Ci si rivolgeva al dio per chiarire i sospetti su un furto e invocare la giustizia divina.
Chi mi ha rubato l’abito da sposa? Tizio, Caio o Sempronio? Recitano più o meno così la maggior parte delle frasi scritte nei 300 piccoli papiri risalenti al III secolo a. C., trovati di recente a pochi metri dal tempio appartenente al sito archeologico di Umm-el-Breigat (Tebtynis) nell’oasi del Fayum a 170 km a sud-ovest del Cairo, ai margini del deserto.
Per un furto i postulanti si rivolgevano ai sacerdoti affinché il loro dio li aiutasse a far luce sul possibile ladro. Segno che il clero all’epoca aveva ancora tanto potere.
SENTENZE - «Se le pratiche oracolari erano d’uso abituale nell’Egitto del Nuovo Regno (1200 a. C.) quando le sentenze ottenute con il responso di un dio avevano efficacia esecutiva alla pari di quelle emesse dai tribunali ordinari, del tutto insolito è stato scoprire che esistevano ancora in piena epoca ellenistica (300-250 a. C.) quando il potere temporale non aveva lasciato più spazio alla giustizia divina: per infliggere qualsiasi sanzione al reo sarebbe stata sempre necessaria una sentenza emessa dal giudice competente», commenta Claudio Gallazzi, docente di papirologia all’Università degli studi di Milano e direttore della missione archeologica franco-italiana di Umm-el-Breigat, artefice del ritrovamento.
INTERROGATIVI - Questi piccoli papiri, scritti nell’85 per cento dei casi in demotico cioè nella lingua egiziana, in molti casi sigillati con argilla e rinvenuti nel pattume dove erano sparpagliati in pochissimi metri quadrati e coperti da sabbia e breccia per non essere recuperati e letti, destano non pochi interrogativi. Uno di questi è il seguente: perché ricorrere all’oracolo per un reato, se il responso del dio non aveva nessuna efficacia per la punizione del colpevole? Gli esperti archeologi hanno dato più di una risposta. Forse per profonda devozione. Forse per evitare lungaggini e costi: se qualcuno aveva solo vaghi sospetti e non certezze, era senz’altro più economico rivolgersi al proprio dio che intraprendere un processo dall’esito incerto. O forse per la soddisfazione di aver segnalato al dio il torto subìto nella speranza che un giorno o l’altro il castigo divino si abbattesse sulla persona che aveva recato l’offesa.
RESPONSO - «A fianco di questi motivi di tipo morale, ce ne può essere stato uno più concreto. Quello che l’opinione pubblica fatta di credenti poteva esercitare una pressione tale sulla persona indicata come colpevole tanto da indurlo ad accettare il verdetto del dio, ad ammettere le proprie responsabilità e a riparare il torto subìto», dice Claudio Gallazzi. Sembra inoltre impensabile che il responso richiesto fosse lasciato al caso. Più verosimilmente i sacerdoti eseguivano una vera e propria indagine per non disattendere la fiducia data loro dai postulanti, qualora il responso dato non fosse stato corretto, e per non vedersi ridurre i proventi derivati dalla compilazione dei biglietti e dalle offerte fatte dai fedeli.
CONSULTAZIONE - Chi desiderava interrogare il proprio dio su un certo furto presentava infatti al tempio tanti piccoli papiri quanti erano i sospettati e riteneva poi colpevole colui il cui nome era tracciato sul foglietto scelto come risposta del dio. Ritornando dunque alla domanda «chi mi ha rubato l’abito da sposa?», poiché gli indizi cadevano su tre persone, tre erano stati senz’altro i biglietti consegnati ai sacerdoti. Scriverli all’epoca tuttavia costava, perché bisognava pagare uno scrivano. Per risparmiare, molti piccoli papiri recavano al loro interno solo il nome dell’ipotetico ladro invece di sette od otto righe di testo precedute da un’intestazione e seguite da una richiesta conclusiva, alcuni appena una croce e altri nessuna scritta. In quest’ultimo caso i postulanti presentavano al dio un biglietto bianco e un altro (o anche più d’uno) con qualche segno sopra, conferendo a essi significati diversi: a seconda di quale biglietto fosse stato loro restituito, stabilivano da sé quale fosse il responso ottenuto.
Manuela Campanelli - Corriere della Sera