In città vige ancora il coprifuoco. I luoghi turistici sono deserti. E la gente cerca di sopravvivere. Ma la crisi fa paura. di Nicola Baldoni C’è un grande manifesto che accoglie i visitatori appena atterrati all’aeroporto del Cairo. È di una banca. È nero. Dal buio emergono due grandi mani e offrono le piramidi, la sfinge, i templi dell’antica Tebe e i grandi palazzi del centro città. Invitano a investire nella neonata democrazia.

Al Cairo vige ancora il coprifuoco e tra un quartiere e l’altro stazionano blindati che di notte chiudono gli accessi tra i quartieri. Altrettanti posti di blocco tagliano le strade che collegano le città, ma quello che s’avverte non è un conflitto pronto a esplodere. Ciò che si vede è la fatica. La miseria, feroce come il deserto che mangia l’intonaco delle case.

VERSO LE PROSSIME ELEZIONI. I militari assicurano di volere garantire la sicurezza fino alle prossime elezioni, ma nelle bancarelle di strada c’è già in vendita il ritratto di Adli Mansour, l’ex magistrato nominato dall’esercito presidente ad interim, ritratto come un’icona, pieno di luce. E la gente pare aver una gran voglia di crederci. Più per stanchezza che per propaganda. 

Il Cairo conta 9 milioni di abitanti che arrivano a 15 milioni se si conta anche l’area metropolitana. Ci si muove tra l’asfalto rotto, la polvere, il suono dei clacson. I lunghi gomitoli di filo spinato buttati intorno a piazza Tahrir per bloccare i cortei son talmente infilzati da buste di plastica e lattine che quasi non si distinguono dal cumolo di immondizia che sta loro accanto. Quando il 13 ottobre la detenzione preventiva di Mohamed Morsi è stata prolungata di altri 30 giorni la piazza è stata di nuovo militarizzata per la paura di nuove manifestazioni. Nulla è accaduto. Ma i blindati hanno bloccato le vie d’accesso al luogo simbolo della rivoluzione. Dall’alto dei tank le mitragliatrici puntano verso le vie deserte, ma a meno di 300 metri, nelle strade intorno, i bar sono pieni. La gente beve il the del pomeriggio, gioca a domino al tavolino e la tivù manda repliche di Baywatch. E si vedono bagnine californiane seminude alle spalle delle ragazze col velo, fucsia magari.

Piazza Tahrir tiene insieme questi guai. È circondata da barriere di metallo che paiono transenne di sicurezza ma sono lavori in corso per grandi palazzi in cemento armato fermi a metà. Si arriva camminando tra i graffiti che ricordano la rivoluzione, muri periodicamente rimbiancati e periodicamente ricolorati coi ritratti dei ragazzi morti in piazza o con quadri che accusano la polizia che li ha ammazzati. Lo stile è da street art, tipo ghetto di Los Angeles.

IL MUSEO EGIZIO È IL FANTASMA DI SE STESSO.entrata una grande insegna ricorda la catena umana di cittadini che fermò il saccheggio, ma col tono trionfante di una dichiarazione di regime Poi, sulla piazza, incombe lo scheletro del palazzo del partito di Mubarak, dato alle fiamme e lasciato intriso di cenere e vuoto. E se ne sta lì, nero, sporco, a far guardia a Tahrir. 

La gente per strada chiede cosa si racconti in Europa dell’Egitto. Dice che sono stati gli scontri mandati in onda dalla tivù a bloccare il turismo, che il Paese è in pace. E racconta che la crisi sta piegando in due la già fragilissima economia d’una terra dove solo il 3,5% del terreno può essere coltivato. La zona delle Piramidi, questa parte di deserto immersa alla periferia poverissima di Giza, con l’unica delle sette meraviglie del mondo antico ancora intatta, è desolatamente vuota. L’unico turismo sopravvissuto è quello dei paesi mediorientali, Qatar ed Emirati in testa, ma i flussi europei e americani sono fermi. Nell’alta stagione l’industria delle crociere sul Nilo si muove su circa 300 partenze al giorno, in quella bassa non si arriva a 10. Le vie intorno ai templi sono un susseguirsi di negozi chiusi, di attività ferme e hotel vuoti.

LA FRATELLANZA PERDE SOSTENITORI: Molti di quelli che hanno appoggiato i Fratelli Musulmani ne sono delusi. La lettura data, tanto dai ragazzi della buona borghesia egiziana, quelli che vanno nelle università americane e che per parlare ti invitano da McDonald's, quanto dal ragazzo che gestisce un negozio orami chiuso in un vicolo di Luxor, è che i Fratelli Musulmani sono stati votati perché al tempo erano l’unica alternativa. Ciò che rimproverano loro è una gestione dilettantistica della macchina di governo e una comunicazione lacunosa. Nei discorsi pubblici, dicono, Morsi si rivolgeva esclusivamente al suo elettorato e non all’Egitto intero.

UN PAESE NELLE MANI DELL'ESERCITO. Il problema del Paese ora è che l’esercito è integrato nel governo, nell’economia e nella società. La leva è obbligatoria, dura due anni e non c’è famiglia che non abbia un parente arruolato. Le canzoni apologetiche sui militari che proteggono la patria - quelle col carro armato a testimone delle potenza della nazione e col militare che abbraccia il bambino - si sentono nei negozi e dall’autoradio. Si stima che l’esercito controlli dal 25 al 40% dell'economia del Paese, tenendo saldamente le mani sull’acqua come sull’energia. Per diversi analisti il fallimento della politica economica di Morsi tra razionamenti di energia elettrica e di benzina, più che a una miopia operativa del governo, è il risultato di un sabotaggio dei militari interessati a far salire il malcontento per sfruttarlo contro l’opposizione. Così l’Egitto attende. Quello della metropoli e quello dei paesini cresciuti sulle rive del Nilo. Con le case fatte di mattoni di fango cotti al sole e che sopravvive di campi di canna da zucchero.