«Io arrestato al Cairo durante le rivolte» - Il racconto di Andrea De Giorgio, fermato con altre due persone in piazza Tahrir e per tre giorni è stato in cella. Tre notti nelle celle del commissariato-prigione di Kasr al Nil al Cairo, un’accusa pesante (e infondata), urla e violenza cieca. Così ho passato gli ultimi tre giorni in Egitto. Tutto è cominciato venerdì notte quando io, Laura (videogiornalista freelance), Samah (giornalista palestinese di Gaza) e Marco (corrispondente per siti e blog indipendenti) eravamo nel quartiere di Zamalek di ritorno da piazza Tahrir che da due settimane è teatro di proteste e scontri spesso finiti nel sangue per la cieca repressione della giunta militare egiziana.
L'ARRESTO- Ci avviciniamo a un gruppo di persone che sta osservando alcune palme andate in fiamme sulla sponda del Nilo nel cuore del Cairo. Facciamo alcune foto e domande ai presenti per capire cosa fosse successo. All’improvviso ci ritroviamo al centro dell’attenzione di un gruppetto di egiziani che ci fanno strane domande. Capendo che la situazione poteva diventare pericolosa ci allontaniamo subito, accorgendoci che gli stessi ragazzi ci stanno seguendo. Rallentiamo spaventati. Senza motivo volano pesanti insulti in arabo diretti alla ragazza palestinese. La situazione precipita. Dopo aver cercato di scappare fermando il primo taxi che passa, ci ritroviamo con gli stessi egiziani che attirano e fomentano una piccola folla di curiosi che comincia ad accusarci dell’incendio e a chiederci i documenti. Pochi minuti dopo arriva la polizia, ma senza capirne il motivo ci perquisiscono, ci caricano in macchina e ci portano in questura.
PIAZZA TAHRIR- Avevo deciso di andare in Egitto per osservare il processo elettorale comparandolo con quello tunisino. Sono stato a Tunisi per un mese e mezzo. Ma qualche giorno prima della partenza, piazza Tahrir si è riaccesa all’improvviso, in quello che di primo acchito sembrava essere il secondo atto della rivoluzione egiziana. Nei quattro giorni di permanenza al Cairo prima dell’arresto, frequento assiduamente piazza Tahrir scattando foto e parlando con la gente. Il centro geografico della capitale egiziana, a quasi un anno dalla rivoluzione del 25 gennaio, ritorna a essere il cuore pulsante di quella che un po’ frettolosamente i media hanno chiamato «primavera araba». Stare in Egitto da giornalista, in questi giorni delicati, non può che voler dire stare in piazza, nonostante i ripetuti controlli e intimidazioni della polizia in borghese (la baltaghiyya) nei confronti di chi cerca di testimoniare la deriva violenta della piazza e la spietata repressione da parte del regime militare del maresciallo Tantawi.
ACCUSE DI SPIONAGGIO - Le precarie condizioni della libertà di parola e di stampa nell’Egitto post-Mubarak sono diventate, negli ultimi mesi, tristemente note. Blogger arrestati, torturati, uccisi. Giornalisti egiziani e stranieri detenuti, espulsi e, nei casi più gravi, brutalmente picchiati. Per gli stranieri il comune denominatore è l’accusa: spie, terroristi o provocatori esterni, come avveniva nei giorni della rivoluzione. La propaganda e la retorica repressiva del regime non sono cambiate: oggi come ieri vertono sempre sulla psicosi collettiva della «foreign agenda», la complottistica regia straniera dietro le proteste. Nell’arco di pochi istanti ci ritroviamo proiettati al centro di questa visione paranoica. Molto probabilmente eravamo seguiti e controllati già da prima dell’incendio, che è stato solo il pretesto per arrestarci ed accusarci.
LA QUESTURA- Laura e Marco, a differenza mia, erano arrivati solo il giorno precedente al Cairo. Samah stava facendo un breve scalo in Egitto, di ritorno a Gaza dopo un soggiorno di lavoro in Germania. Pur essendoci appena incontrati (conoscevo da prima solo Laura, con cui avevo collaborato in Tunisia) durante tutto quel venerdì avevamo lavorato insieme seguendo storie che possono aver insospettito e infastidito le autorità egiziane. Così ci siamo ritrovati rinchiusi nel non-luogo della questura di Kasr al Nil. Una villa fatiscente costruita nel 1924 e diventata un purgatorio di sporcizia e disumanità per chi attende di essere giudicato. Nell’ultimo anno questa è diventata la principale prigione per i manifestanti di piazza Tahrir. Durante la detenzione, col passare delle ore e l’aggravarsi della nostra condizione giuridica - nonostante l’intervento tempestivo e la pressione dei funzionari dell’ambasciata italiana - veniamo continuamente spostati di cella.
LE ACCUSE- Da sabato diventa chiaro che dietro al pretesto dell’incendio si nasconde un’inchiesta per spionaggio e terrorismo internazionale. Rischiamo minimo tre anni di carcere. Cambia il copione e con esso il nostro trattamento. Passiamo la prima notte sulle poltrone di un ufficio della questura. La seconda in una cella di un metro e mezzo per due. La terza notte, prima della nostra liberazione per intervento della console italiana, Ana Cecilia Bonilla Taviani, le ragazze sono rinchiuse per un’ora abbondante nella cella femminile, piena d’immondizia ed escrementi, in compagnia di una donna accusata di furto. Io e Marco in quella degli uomini. Quattro metri per quattro per una trentina di giovani carcerati egiziani, quasi tutti arrestati in piazza.
GLI ALTRI PRIGIONIERI- Tra loro c’è Muhammad, un bambino scalzo di 10 anni. Maglietta azzurro cielo sbiadita tutta bucherellata, pantaloncini corti strappati. Negli occhi il terrore di una storia che gli ha rubato per sempre l’innocenza. Nella notte fra sabato e domenica vengo svegliato da urla disumane che arrivano dai sotterranei. La mattina dopo alcuni detenuti mi raccontano che Muhammad è stato abusato sessualmente dai compagni di cella, sotto lo sguardo dei secondini, intervenuti solo a trattamento avvenuto. Da quello che possiamo notare da dietro le sbarre, gli egiziani che vengono rastrellati in questi giorni non sono quasi mai studenti o giovani appartenenti alle classi agiate. Sembra che la polizia si stia accanendo soprattutto sui poveri dei quartieri popolari (molti si trascinano scalzi, con vestiti consunti), carne da macello sia negli scontri di piazza sia nel buio delle galere. Mostrano tutti, sul volto e sul corpo, i segni delle «carezze» dei poliziotti. Occhi neri, mani spezzate, arti gonfi. Davanti a noi i poliziotti sembrano avere la mano ancora più pesante. Durante uno dei concentramenti nel cortile fuori dalle celle in cui ci vengono strette le manette ai polsi (siamo rimasti ammanettati in coppia per tutto il secondo giorno), un ragazzo viene preso a calci in faccia da un secondino solo per aver rivolto un sorriso a noi stranieri.
IN TRIBUNALE- In questo Egitto accecato dal precario equilibrio politico e dalla paura dell’ignoto verso cui sta andando, sembrano riecheggiare le parole di Pasolini sulla guerra fra poveri, manifestanti e poliziotti del ’68 italiano. L’altro raccapricciante non-luogo di questi giorni è il tribunale centrale del Cairo. Altro edificio fatiscente in condizioni igieniche e umane forse peggiori delle celle di Kasr al Nil. Nel grosso bassorilievo all’entrata la Dea Giustizia è rigorosamente bendata. Dopo due giorni di interrogatori ininterrotti e sempre uguali, perquisizioni, estenuanti giochi di sguardi con poliziotti e procuratori, pressioni diplomatiche a più livelli, riusciamo ad ottenere un decreto di scarcerazione, stranamente non accompagnato dall’ordine di espulsione dal paese. Le indagini non sono ancora ufficialmente finite e sull’aereo che ci riporta di corsa in Italia non riesco a smettere di pensare a Muhammad e agli altri detenuti. In uno dei tanti spostamenti dalla questura al tribunale, discutendo nella pancia di un camion blindato, i ragazzi egiziani guardano fuori dalle sbarre delle feritoie. Annusano l’aria carica dei gas lacrimogeni che in questi giorni satura il cielo del Cairo. Alcuni dicono che non appena usciranno di prigione torneranno subito in piazza Tahrir. Gli altri annuiscono e cominciano ad intonare canti tradizionali egiziani.
Andrea de Georgio - Corriere della Sera