Hatshepsut

Il fotografo Kenneth Garrett chiede alla direttrice del Museo egizio del Cairo, Wafaa El Saddik, di visionare un elenco di tesori di Hatshepsut che desidera fotografare per questo articolo: una sfinge di Hatshepsut in calcare proveniente dal suo tempio, la cassetta di legno contenente il dente e un busto di Hatshepsut in calcare che la raffigura nelle sembianze di Osiride, dio degli inferi. L'ultima voce dell'elenco è il corpo mummificato della stessa Hatshepsut.

«Vuole che togliamo il vetro?», chiede la direttrice incredula. Il fotografo annuisce. «Ma qui si parla della storia del mondo!», esclama inorridita Wafaa El Saddik.

Alla fine, tuttavia, si stabilisce che è possibile togliere un pannello della teca custodita nella sala delle mummie reali senza mettere a repentaglio la storia mondiale. Guardando i resti della grande donna faraone mentre il fotografo sistema le luci, mi domando perché sia stato così importante identificare il suo corpo. D'altronde, cosa può riaccendere la storia dell'antico Egitto più di quel corpo di donna che ha attraversato i secoli, a dispetto delle leggi della natura? Lei oggi è fra noi, come un'ambasciatrice dell'antichità. Eppure, non c'è qualcosa di morboso nell'interesse che porta milioni di curiosi nelle sale dedicate alle mummie della famiglia reale, trasformando in altrettanti feticci quei nobili defunti?

Hatshepsut

Più guardo Hatshepsut, più quegli occhi impenetrabili e la fissità opprimente di quella carne senza vita mi ripugnano. Molti di noi vivono secondo un credo che è 1'antitesi di quello dei faraoni: cenere alla cenere, polvere alla polvere. Hatshepsut è molto più viva nelle sue iscrizioni, nelle quali, anche a distanza di millenni, si sente ancora il battito lieve del suo cuore.
Fonte: NGM

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